Abbiamo trovato la nostra stabilità in una vita nomade

Sara e Sergio crescono a Roma Est. Fin da ragazzi, il loro obiettivo è affrancarsi dalle famiglie di partenza. Così lasciano le scuole e scivolano dentro una vita di apparente stabilità. Lei commessa, lui idraulico. Lavorano tantissime ore al giorno. Fino a quando la nascita del piccolo Diego mostra loro l’assurdità di una vita consumata a sgobbare per “pagarsi” una città come Roma.

Tempo di lettura: 11 minuti

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Sara Grasso e Sergio Cozzi con il piccolo Diego.

Ascolta il podcast della puntata:

“Lo dico un po’ per sangue, un po’ perché è veramente la città più bella: Roma è l’altra mamma. Però se non sei benestante, non vivi bene a Roma. E per benestante intendo che non devi avere il pensiero di come far quadrare i conti”.

Sara Grasso e Sergio Cozzi mi parlano di Roma dal loro camper parcheggiato in un remoto spot dell’Estremadura, regione a sud ovest della Spagna, dove oggi hanno trascorso la giornata a contare cervi e daini. Sono le nove di un venerdì sera e hanno appena messo a letto il piccolo Diego.

Entrambi classe 1985, hanno lasciato Roma a settembre del 2021 a bordo del loro camper. Quando li ho invitati in questo podcast, pensavo di ascoltare la storia di due nomadi digitali. O tutt’al più di due ragazzi vissuti sempre al di fuori dei classici parametri di stabilità economica e di sicurezza. Mi sbagliavo.

L’urgenza dell’indipendenza economica

Sara e Sergio provengono da famiglie piuttosto semplici: papà che lavora fuori casa e mamma che lavora in casa, responsabile di tutte le attività di cura. Per Sara, la situazione cambia bruscamente quando i genitori si separano.

«Anche se mio padre contribuiva in parte al bilancio familiare, mia madre ha dovuto reinventarsi come donna molto giovane con due figli piccoli», racconta.

Da quel momento, l’indipendenza economica diventa per Sara l’obiettivo più urgente da raggiungere. «Ho capito subito che volevo dei soldi miei, non volevo più chiedere niente a nessuno. Frequentavo il tecnico per il turismo, mi piaceva tanto, ma poi per le vicissitudini di cui parlavo prima, e anche perché ero la classica testa calda, ho lasciato gli studi e mi sono messa immediatamente a lavorare. Ho fatto la babysitter, la barista, la cameriera».

Anche Sergio disegna la sua vita cercando di anticipare il più possibile il momento dell’indipendenza: «Io pure ho iniziato a lavorare molto presto, per essere il più autonomo possibile e non dover chiedere niente a nessuno. Mi sono fermato alla terza media, poi ho preso l’attestato in una scuola statale da termoidraulico. Finito quello, ho subito lavorato. Dai cantieri edili ai traslochi alla sicurezza».

A dispetto di un’economia familiare volta alla soddisfazione dei bisogni primari, Sara sviluppa una sua personale idea di come i (pochi) soldi che ci sono vadano spesi: «Sapevo che i soldi erano fatti per essere spesi in esperienze, non tanto in cose».

E tra le esperienze ce n’è una in particolare che le fa sorridere gli occhi al solo parlarne. «Al primo viaggio che ho fatto da sola, a 17 anni con la scuola a Londra, ho capito che nella vita volevo viaggiare. Da quel momento qualsiasi risparmio era per i viaggi», racconta Sara.

«Io invece no», interviene Sergio. «Il viaggio l’ho scoperto quando ho conosciuto lei. Mi piaceva stare con gli amici, andarci a fare la birra il weekend o a ballare in discoteca. Se dovevamo fare  una vacanza, la si faceva tutti insieme sempre nel solito posto. Invece quando ho conosciuto lei, mi si è aperto un mondo dal quale adesso non posso più tornare indietro. Non smetterò mai di ringraziarla».

La trappola della sicurezza

Hanno 29 anni, Sara e Sergio, quando si incontrano. Lei, da 7 anni, lavora come commessa da Bershka con un contratto a tempo indeterminato: guadagna 1200 euro al mese.

“Sono rimasta in Bershka per 15 anni. Ti ho fatto l’incipit di che tipo di persona ero, di come mi piacesse viaggiare, stare nella natura, all’aria aperta… Sono stata 15 anni praticamente a girare per negozi e centri commerciali, quindi chiusa dentro queste scatolette piene di rumori di luci artificiali”.

Sergio invece lavora per un’azienda multiservizi con un contratto a chiamata: «Lavoravo parecchio, di media 16 ore al giorno. Succedeva che finivo la notte e riattaccavo al mattino dopo poche ore. In compenso guadagnavo più di 2000 euro al mese».

Nel maggio del 2018, dopo un doloroso aborto e una delicata operazione che avrebbe potuto lasciare Sara nell’impossibilità di concepire, nasce, desideratissimo, il piccolo Diego. E l’assurdità delle loro vite diviene manifesta a entrambi.

«Diego passava da un nonno a un altro», raccontano. «C’era lo stress di chi lo dovesse andare a prendere, perché avevamo una sola auto. Non ci godevamo più la famiglia, non stavamo mai insieme. E il tempo che avevamo non era di qualità, eravamo sempre arrabbiati».

L’idea di cambiare vita si era già affacciata prima della nascita di Diego: «Appena abbiamo cominciato a viaggiare insieme, sognavamo ogni volta di non avere il biglietto di ritorno e di poter restare lì dove eravamo», racconta Sara.

Ma è con l’arrivo della pandemia che la situazione peggiora a tal punto che quel sogno a occhi aperti assume i contorni della possibilità. Sara e Sergio hanno in mano due mestieri incompatibili con una qualsiasi forma di digitalizzazione. Lei viene messa in cassa integrazione e lui rimane senza stipendio, essendo un lavoratore a chiamata. Racimola qualcosa facendo il rider per Glovo, ma non abbastanza. Il fondo di emergenza che avevano da parte, un avanzo del prestito per ristrutturare casa, mese dopo mese viene completamente eroso. Quando si può finalmente tornare al lavoro, lo fanno a un ritmo forsennato per recuperare liquidità. Stanno 10 ore al giorno fuori di casa. Alla sera, guardano negli occhi il piccolo Diego e capiscono che la sicurezza economica non è un valore in sé, ma solo in funzione del tipo di vita che ti permette di fare.

“Tu puoi anche avere la stabilità economica, un tetto sulla testa, un lavoro a tempo indeterminato. Ma se in questa bolla di sicurezza tu non ti senti bene, allora quanto vale quella sicurezza per te?”.

Sara e Sergio sono pronti a compiere il passo che hanno immaginato a lungo. Lei prende inizialmente il congedo parentale, lui si licenzia. Vendono casa e comprano un camper. Il 27 settembre del 2021 partono.

Liquidità al posto di certezze

È strano sentir parlare Sara e Sergio di privilegio, ma loro stessi riconoscono che c’è un privilegio abilitatore per questa scelta che hanno fatto.

Benché sia figlio di un operaio semplice e di una mamma casalinga, Sergio ha la fortuna di avere una casa di famiglia, o meglio un garage che ha riadattato ad abitazione grazie a un piccolo finanziamento: «Per il fatto di non pagare il mutuo mi ritenevo uno dei più fortunati tra i miei amici».

Ed è proprio la vendita di quella casa che permette loro di partire.

“Sì l’ho venduta. Non volevo più niente che mi tenesse legato. Se l’avessi affittata avrei sempre pensato di poter tornare. E invece volevo essere bello determinato”.

«Questa è la spiegazione emotiva», interviene Sara. «Poi c’è la motivazione pratica: ci serviva liquidità. Per comprare un camper e per chiudere il prestito che avevamo. E anche per tenere un gruzzoletto da parte, nel caso in cui ci fosse successo qualcosa durante il viaggio».

Dei 140mila euro della vendita della casa, 25mila se ne vanno per estinguere il finanziamento e qualche altro migliaio per l’acquisto di un camper usato e per il suo adattamento, pannelli solari e serbatoio dell’acqua, affinché possa essere autonomo per diversi giorni. Il resto è il loro “fondo” di sicurezza, la prima pietra su cui costruiranno la loro nuova vita.

«Sta lì e aspettiamo l’occasione per investirlo nella maniera giusta», racconta Sara. «Non crediamo che ricompreremo una casa. Non sappiamo quanto vivremo ancora in camper, però non vogliamo fare mai più un mutuo nella nostra vita».

«Non è solo per questo», aggiunge Sergio. «Avere una casa, con le spese e tutto ciò che gira intorno alla casa, significa possedere qualcosa che ti dice di stare qui, fermo, una radice, un piombo che ti tiene ancorato in un posto».

Le critiche che Sara e Sergio ricevono da parte di familiari e amici sono soprattutto per aver coinvolto il piccolo Diego nella loro scelta. «Lo facciamo per noi», dice Sara, «perché sarebbe ipocrita dire il contrario. È un nostro desiderio, ma sapevamo quanto per lui sarebbe stata un’occasione irripetibile di vivere un’esperienza straordinaria e arricchente».

In tanti ci dicono: “Avevate questa casa! Potevate lasciarla a Diego!”. Ma noi crediamo che l’importante sia lasciare a nostro figlio il ricordo di un’infanzia e un’adolescenza più serena possibile, cioè guardare in faccia i propri genitori e vederli felici e non pieni di rimpianti”.

La scelta di viaggiare in camper la fanno senza averne mai usato uno. Sembrava la soluzione ideale con un bambino al seguito e soprattutto nell’incertezza di una nuova ondata di pandemia.

«Prendiamo un camper, alla fine è come un grande zaino, ci siamo detti. Quando però ci sono salito sopra, non sapevo proprio di cosa si trattasse. Ci eravamo portati le cose più impensabili, dai soprammobili ai quadri. Abbiamo fatto cesti e cesti di roba da rimandare indietro, perché ci siamo resi conto di quanto superfluo c’è nelle nostre vite. Ti servono veramente poche cose per vivere».

Sara e Sergio non hanno televisore, lavastoviglie o lavatrice. Hanno 220 litri d’acqua che durano 4-5 giorni. E questa vita essenziale la stanno trasmettendo a Diego. «Facendo una vita totalmente differente da quella di prima, non guardando la televisione, non ha neanche tante richieste o capricci», racconta Sara. «Quando mi dicono “Ma voi lo fate crescere così?”, io rispondo che qui le regole ci sono molto di più che in casa. Qui deve imparare a lavarsi i denti con poca acqua e a riporre sempre i suoi giochi quando ha finito», aggiunge Sergio.

Se nella loro precedente vita, Sara e Sergio spendevano due stipendi senza riuscire a mettere niente da parte, adesso spendono 1000 euro al mese, al massimo 1200, a seconda di quanti chilometri fanno, perché la spesa principale è il gasolio. Per il resto, la Spagna è ancora un eldorado per camperisti con aree di sosta gratuite per il carico e scarico e nessun obbligo di dormire in campeggio.

Ma che giro hanno fatto?

«Abbiamo risalito l’Italia», raccontano. «Siamo andati a Venezia, dove non eravamo mai stati, poi le Dolomiti, le Alpi. La Francia l’abbiamo attraversata velocemente perché troppo costosa. Quindi siamo entrati in Spagna, abbiamo seguito la costa fino a Tarragona, per poi fermarci 6 mesi sulla costa di Cadice dove Sergio ha trovato lavoro. Quando siamo ripartiti, abbiamo attraversato il Portogallo lungo la costa fino a Porto, per poi tornare indietro dall’entroterra. Adesso siamo in Estremadura una terra meravigliosa, non battuta dal turismo».

Nei sei mesi fermi in Andalusia, Sergio ha lavorato in una pizzeria, ricaricando il conto senza intaccare il fondo di sicurezza, e Diego ha frequentato un asilo nel bosco, socializzando con altri bambini. Tutti e tre hanno in qualche modo “rifiatato”. «Non è semplice stare sempre, tutti i giorni, tutti insieme, tutto il giorno», confessa Sara. «È l’altra faccia di questa scelta di vita meravigliosa che abbiamo preso. Insomma, la privacy ne risente un pochettino».

La conversazione sul futuro

L’orizzonte di tempo che si sono dati per questo nomadismo sono i  6 anni di Diego, ovvero il 2024. Per allora, contano di trovare un posto in cui fermarsi.

«Vorremmo un posto in cui ci sentiamo bene. Con scuole che non siano finalizzate a insegnare allo stesso modo a tutti per ottenere da tutti gli stessi risultati. Ce ne sono, ma purtroppo sono sempre private e quindi care».

Quando si fermeranno, e finalmente utilizzeranno il gruzzolo che hanno da parte, non sarà per comprare una casa. E quasi certamente non sarà in Italia, dove hanno lasciato cuore e affetti, ma in Spagna.

“Qui in Spagna nessuno ti giudica. In Italia se fai una scelta del genere vieni subito additato. Da noi la concezione del camper è: ‘O ci vai a fare le vacanze e sei benestante. Oppure ci vivi e sei un nomade’. Invece in Spagna no, è un’opzione di vita”.

Sul finire dell’intervista, chiedo sempre agli ospiti del podcast quali sono i loro obiettivi futuri. Mai, come in questo caso, ho avuto la sensazione che questa domanda fosse parte di una conversazione quotidiana. È come se l’affrancamento da uno schema sociale che si ripete identico di generazione in generazione, li abbia responsabilizzati circa la necessità di avere obiettivi di medio e lungo periodo: un fondamento della pianificazione finanziaria.

Sergio vorrebbe  comprare un terreno e offrire servizi ai camperisti in maniera alternativa rispetto alla classica area di sosta. Sara vorrebbe farci anche un orto e vendere i prodotti a chilometro zero. E intanto attrezzarsi per lavorare con il digitale.

«Noi italiani abbiamo questa disillusione nel futuro. È come se tutto fosse già scritto, già da prima che venissimo al mondo. E vedi persone che stanno lì a guardare la vita che passa, come per un po’ di tempo abbiamo fatto noi. Pensando di non poter fare ciò che desideravamo fare».

“Ovviamente abbiamo tanti sogni. Uno lo abbiamo realizzato, anzi due. Il passo più grande, le paure più grosse le abbiamo scavalcate. Adesso è tutto più semplice. Una volta che ti sei buttato, impari a nuotare. E poi vedi che sei felice, che si può fare”.

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