Ma quanto sono dannose per l’ambiente le crypto?
Non tutte le criptovalute sono dannose per l’ambiente. Dipende dal protocollo su cui sono basate e da dove si trovano i “miner”.
Tempo di lettura: 4 minuti
di Amelia Tomasicchio
Sono una giornalista investigativa di valuta digitale ed esperta di marketing. Ho iniziato a lavorare nel fintech nel 2014, dopo essermi laureata all’Università di Roma con una tesi su Bitcoin. Ho cofondato e dirigo il magazine online The Cryptonomist.
Oggi proviamo a sciogliere un tema piuttosto dibattuto, ovvero l’eccessiva quantità energetica richiesta dalle criptovalute e i loro effetti negativi per l’ambiente.
Per prima cosa, facciamo una distinzione
La maggior parte delle crypto in circolazione sono basate su due tipi di protocollo: Proof-of Work (PoW) e Proof-of-Stake (PoS). Ebbene: tutte quelle che sfruttano un protocollo PoS non sono dannose per l’ambiente e per fortuna negli ultimi anni si è vista un’elevata transizione verso questo tipo di funzionamento.
Tutte le altre, come le due più famose e con la più alta capitalizzazione di mercato, Bitcoin (BTC) ed Ethereum (ETH), sono sviluppate su blockchain che richiedono una “prova di lavoro”, Proof-of-Work appunto.
Cosa sono questi protocolli?
Quando si sente parlare di PoW o PoS ci si sta riferendo all’algoritmo di consenso utilizzato dalla blockchain su cui una certa crypto viene sviluppata (nella prima puntata spiegavamo cos’è la blockchain). Il tipo di algoritmo è importante per poter garantire il funzionamento di un sistema trustless, ovvero in cui gli utenti non hanno bisogno di conoscere o fidarsi l’uno dell’altro o di una terza parte perché il sistema funzioni. Gli utenti, grazie a questo tipo di meccanismi, possono scambiarsi asset di ogni tipo in completa sicurezza, senza il bisogno di conoscere l’entità della controparte.
Perché i protocolli PoW richiedono un grande fabbisogno energetico per poter funzionare?
I protocolli Proof-of-Work funzionano per mezzo della cosiddetta “prova di lavoro” che viene fornita da alcune figure che vengono chiamate miner. Affinché ogni transazione venga registrata e verificata, e quindi un nuovo blocco possa essere aggiunto definitivamente alla catena e considerato valido da tutti, si deve risolvere un complesso problema matematico. I miner sono coloro che risolvono questi problemi matematici complessi utilizzando hardware con un’elevata potenza di elaborazione.
Per trovare la soluzione a ogni enigma c’è bisogno di potenza di calcolo che viene fornita in genere dai computer, ma più nello specifico da macchine ottimizzate per questo tipo di lavoro, come schede video ed ASIC.
Ogni volta che un blocco viene risolto, il primo ad aver trovato la soluzione al problema riceve una ricompensa per il lavoro svolto. Di conseguenza, i miner competeranno tra di loro in una gara a chi riesce a risolvere per primo il complesso algoritmo. Per essere più competitivi e per aumentare le probabilità di “vincere la lotteria” ognuno tenterà di offrire al sistema più potenza di calcolo possibile.
Ovviamente, questo tipo di macchine hanno bisogno di energia elettrica costante per poter funzionare ed è proprio da qui che nasce il problema legato ai grandi consumi.
Qual è il consumo energetico del Bitcoin?
L’unità di misura utilizzata per valutare la potenza di calcolo complessiva presente nel sistema è chiamata hashrate. Al giorno d’oggi, questa registra livelli record pari a 250 Ehash/s.
È un numero talmente grande da poter sembrare privo di senso. Per rendere l’idea, basti pensare che questo è il fabbisogno energetico richiesto da un Paese di medie dimensioni.
Campagne come quella di Greenpeace, Change the code, not the climate, sono volte a frenare il processo di riscaldamento globale. Questa iniziativa è interamente dedicata a incentivare il cambio di protocollo del Bitcoin verso uno più sostenibile, come sta già accadendo con Ethereum.
Il PoS, rispetto al PoW, oltre a richiedere almeno il 90% in meno dell’energia elettrica, rende la rete molto più veloce, economica e scalabile.
Il 50% dell’energia proviene da fonti rinnovabili
Se il Bitcoin richiede sicuramente una quantità di energia esagerata per poter funzionare, c’è da riconoscere che attualmente gran parte di essa proviene da fonti rinnovabili.
Basti pensare che in Norvegia, paese con una presenza capillare di miner, il 98% dell’energia viene prodotta ad impatto zero. Inoltre, il 50% dell’hashrate mondiale è alimentato da fonti sostenibili e quindi, non inquinanti per l’ambiente.
Sicuramente si può fare ancora molto di più per combattere insieme il cambiamento climatico, ma il passo verso una transizione più green non è del tutto lontano.