Quella rabbia per il privilegio degli altri

Chiara Gandolfi ha 43 anni, una casa a Parigi, un fidanzato e due gatti. «Sono esattamente dove vorrei essere», confessa. Ma per arrivarci ha dovuto smontare una per una le certezze con cui è cresciuta. La prima è che la fatica sia la condizione per ogni godimento: nella cultura cattolica in cui è immersa, il sacrificio è uno stile di vita. Eppure, quando va al liceo, Chiara scopre che non è così per tutti: chi può permetterselo va avanti senza fatica. Se è vero che i soldi non danno la felicità, di sicuro creano delle distanze.

Tempo di lettura: 11 minuti

Chiara Gandolfi

Ascolta il podcast della puntata:

“Ieri sera stavo per annullare tutto, non lo faccio perché ho un senso del dovere altissimo. È bella questa cosa di sdoganare il tema soldi. Ma quando poi tocca a te parlare dei tuoi soldi… ti dico che ieri sera mi è presa la strizza”.

Questa è una delle puntate di Rame che hanno rischiato di non esistere. Parlare di soldi in pubblico è come avventurarsi in una terra sconosciuta. Può succedere che ci si tiri indietro poche ore prima che inizi il viaggio. Per fortuna, non è successo.

«Mio padre e mia madre non hanno mai parlato di soldi. Tuttora io non so quanto guadagnassero. C’è stato sempre questo tabù. Come se a dire quanto guadagni esponi una parte di te che può essere giudicata o che può essere corrotta dall’esterno».

Il sacrificio come stile di vita

Chiara Gandolfi ha 43 anni. È nata in un piccolo paese delle Marche, da una mamma operaia e un papà impiegato, entrambi religiosissimi.

«Mio padre è diacono, una figura intermedia tra Dio e gli umani. Io stessa facevo parte del coro della parrocchia e quindi mi ascoltavo tre messe ogni fine settimana. Mia mamma e mio papà tenevano i percorsi di pastorale familiare per insegnare alle coppie a star bene insieme. Dimenticavo: c’erano anche due zie suore, non vorrei che si sentissero escluse da questa santità che si respirava in famiglia».

Da bambina Chiara immagina una vita adulta guidata dalle passioni. «All’asilo desideravo una vita poetica, in cui si potesse fare esattamente quello che eravamo destinati a fare, che erano le cose più piccole, più artistiche. Invece poi ho dovuto lavorare. Mi sono scontrata con la realtà dei fatti».

Man mano che cresce, Chiara assimila l’idea che la fatica sia la condizione per ogni godimento: nella cultura cattolica in cui è immersa, il sacrificio  è uno stile di vita.

“I miei genitori mi hanno fatto capire che se non mi impegnavo non succedeva niente. Se tu non ti sacrifichi come Gesù si è sacrificato per noi… Mi tremano pure le parole mentre te lo dico, perché c’è ancora questa emozione nel ripercorrere fasi della mia vita che mi hanno segnata profondamente. Sono stata cresciuta con una concezione del lavoro come fatica, perché lavorare e trarre piacere da quello che stai facendo è sospetto”.

A un certo punto, però, Chiara si accorge che non è così per tutti.

La scoperta dell’ingiustizia sociale

La fatica e il sacrificio non sono la condizione attraverso cui tutti devono passare per ottenere dei risultati. Chiara inizia a covare una rabbia che ancora oggi non l’abbandona.

«La prima volta che l’ho provata è stato a scuola: mi impegnavo moltissimo nelle versioni di greco, ma non riuscivo a prendere più di 7. E mi dicevo: c’è un problema e non sono io quel problema. Perché se studio tantissimo devo ricevere tantissimo. Invece questo binomio non stava funzionando».

Chiara frequenta il liceo classico, sezione A, dove sono stati raccolti gli alunni più bravi delle scuole medie. Sono tutti figli di medici, avvocati, notai. Lei è solo Chiara, la figlia del diacono di un paesello di provincia.

“Possiamo essere d’accordo o meno sul fatto che i soldi non diano la felicità, ma ciò che oggettivamente creano sono delle differenze, delle distanze. Loro avevano i vestiti alla moda, io avevo i vestiti del mercato o quelli che mi faceva mia zia sarta. Le più brave della classe andavano comunque a ripetizione per portarsi avanti con le lezioni che la prof non aveva ancora spiegato. Loro erano quelle che andavano in vacanza studio in Inghilterra per tre mesi. Io andavo al campo scuola della parrocchia a incontrare Gesù”.

Chiara dopo la laurea passa da un lavoro all’altro, inseguendo un altro totem culturale che le arriva dalla famiglia, il posto fisso. Si trasferisce dalle Marche a Milano, poi a Bergamo. Fa la speaker radiofonica, l’addetta alle risorse umane, la libraia. Senza mai superare i 1400 euro al mese da co.co.pro. Anzi, passando momenti molto difficili, come quando il suo orario di lavoro viene ridotto a un part-time da 400 euro e lei deve mantenersi assieme a due gatti.  Se il sacrificio non dà risultati, forse la Provvidenza sì.

«Non sapevo come fare la spesa, non sapevo se avrei mangiato l’indomani. Tenevo il riscaldamento basso per spendere meno possibile. E ricordo una delle mie zie suore che mi lasciava le crocchine per i gatti fuori dalla porta. Per me era come la Provvidenza».

La decostruzione dei totem culturali

La storia di Chiara è quella di una progressiva decostruzione di tutto ciò che le è stato insegnato fin dalla nascita.

«Sono nata negli anni Ottanta e quindi la triade era: ti sposi, fai figli e compri casa. Io mi sono sposata e separata un anno dopo: prima decostruzione. Probabilmente pensavo di volere dei figli e quando ero piccola avevo scelto persino i nomi, la chiamerò Eleonora, la chiamerò Miriam, se sarà maschio Francesco, per poi scoprire che in realtà non avevo voglia di fare figli: seconda decostruzione. Sulla casa ho pensato che non avrei mai avuto i soldi per comprarmene una. E invece poi l’ho fatto. Sono venuto a Parigi e dopo un anno e mezzo mi sono comprata una casa con il mio compagno».

Per arrivarci, però, Chiara ha dovuto fare una terza decostruzione. Quella del posto fisso. Perché per tutto il tempo in cui l’ha rincorso, non è riuscita a tirar fuori uno stile di vita di poco superiore alla sopravvivenza.

“In quel periodo da dipendente non sono mai riuscita a mettere due soldi da parte: tutto quello che guadagnavo lo spendevo o per andare al lavoro o per mantenermi o per pagare bollette, affitti, cose varie. Non sono mai riuscita ad avere una progettualità. Avevo sempre la scadenza che era oggi, massimo domani”.

A un certo punto, otto anni fa, Chiara capisce che può fare la differenza mettendosi in proprio e dando una forma a ciò che ha imparato negli anni.

«Se aspettavo che qualcuno mi desse dei soldi perché ero brava, da dipendente, potevo aspettare le calende greche. Mi sono detta: adesso vediamo cosa succede se faccio i miei prezzi. E non è stato facile perché si è trattato di riconoscere anni e anni di sacrifici che mi avevano portato a quel punto lì. Quanto vale tutta questa esperienza? Quanto vale tutta questa sofferenza, questo sacrificio? Quanto valgono tutti i corsi di formazione e gli studi che ho fatto? All’inizio facevo dei prezzi da fame. A vederli adesso, i primi preventivi mi fanno tanta tenerezza».

Gli sporchi soldi e la vita poetica

Chiara decide di occuparsi dell’identità verbale dei brand: nome, pay off, testi del sito, tono di voce. L’attività inizia a ingranare ma commette un errore: delega la gestione economica del suo lavoro al compagno di allora.

“Non mi sentivo capace, perché questa cosa dei soldi l’avevo vista sempre come una cosa lontana da me, come se non mi riguardasse. Io faccio il lavoro creativo, la vita poetica. Tu invece ti occupi degli sporchi soldi, fai i preventivi, fai le fatture, dai un valore al mio lavoro, perché io non ne voglio sapere niente”.

Quando finisce la storia d’amore continua la relazione economica, per cui lui gestisce il portafoglio clienti di Chiara e i suoi conti.

Ci vogliono un paio di anni perché lei scopra che il suo ex fidanzato le corrispondeva solo i 30mila euro di fatturato consentiti dal regime dei minimi e si intascava il resto. Diagnosticato bipolare e con un disturbo ossessivo-compulsivo, con quei soldi comprava qualsiasi futilità, lasciando a lei le spese dell’affitto e delle utenze.

Per Chiara inizia un percorso di psicoterapia finalizzato a capire che può farcela senza di lui. Dopodiché incontra un nuovo amore e accetta un’ennesima sfida: trasferirsi con lui a Parigi e ricominciare da zero con nuova burocrazia, nuova lingua, nuovi clienti.

La fioritura di Chiara

«Una volta qui, sono stata capace di darmi quel valore che ho sempre cercato. È qui che ho iniziato a mettere da parte i soldi: nell’arco di due anni ne ho messi via 70, 80 mila euro e insieme a quelli del mio compagno siamo riusciti ad arrivare a una cifra di 200 mila con cui abbiamo potuto dare l’anticipo per la casa. Qui a Parigi una casa di 57 metri quadri come la nostra, costa 600 mila euro più 40 mila di notaio. Piano piano sono riuscita ad appropriarmi anche di questa parte del mio lavoro, lo sporco denaro».

Oggi la voce di Chiara risuona nelle audioguide che accompagnano i visitatori italiani del Musée d’Orsay e del Musée de Luxembourg. L’opera di decostruzione della vita che le era stata assegnata è finalmente compiuta.

“Sono esattamente dove vorrei essere. A Parigi, a pagare una barca di soldi per un mutuo che però mi fa felice perché fuori c’è una città meravigliosa che mi aspetta, che mi accoglie con i suoi concerti, i musei, con la sua architettura meravigliosa”.

La vita poetica che sognava da bambina ha trovato posto nella sua quotidianità.

«Vado quasi tutte le settimane in un museo e prendo, come diceva Julia Cameron, il mio appuntamento con l’artista che è in me. Compro cose immateriali, come corsi di formazione improbabili che non farò mai nella mia vita, tipo ceramica. E mi sto dedicando alla danza. Questo è il disegno che mi sto costruendo e ne sono contenta».

La storia potrebbe finire qui. Con questo lieto fine.  Eppure c’è  ancora qualcosa che impedisce a Chiara di sentirsi completamente a posto.

«Due cose, in realtà. La prima è che non mi sento libera di spendere i soldi. Io sono una di quelle persone che ai blocchi di partenza è partita un po’ indietro e forse per questo non sa bene cosa voglia dire riprendere fiato. Anche adesso che sto bene, che non mi manca niente, non riesco a rallentare per paura che poi ci sia il vuoto. Hai presente cosa si dice dei nostri nonni che hanno vissuto la guerra? Ecco, io sono uguale. Accumulo un po’ come la formichina, perché l’inverno può essere lungo».

La seconda cosa è che Chiara non riesce a far pace con il senso di ingiustizia con cui ha dovuto confrontarsi per gran parte della vita.

La rabbia per il privilegio altrui

«Faccio fatica a rapportarmi con la fortuna e il privilegio economico di chi non ha dovuto fare fatica».

La rabbia e la frustrazione che Chiara prova sono ancora molto forti.

«Secondo me bisogna che io le continui a indagare in psicoterapia. Perché stanno diventando un impedimento anche nelle mie relazioni».

“Ho delle amiche con cui non si sente più tanto il divario economico, ma si sente il privilegio, il fatto che io debba lavorare per guadagnarmi tutto, mentre loro possono anche non guadagnare. Dalla mia parte c’è la sopravvivenza, dalla loro parte c’è che giocano a fare l’imprenditrice, tanto papà paga l’appartamento. Loro non devono lavorare così tanto e quindi possono fare una vita poetica. Io invece devo lavorare per ritagliarmi momenti poetici in una vita di fatica”.

Ogni tanto Chiara si diverte con il suo compagno a immaginare una società egalitaria.  «Abbiamo messo a punto un metodo che vorremmo proporre allo Stato: alla morte di una persona, rimettere i suoi beni in società invece di darli ai figli, in modo tale che chiunque ne abbia bisogno se li possa prendere, per mezzo di un sistema di ripartizione equo. Tutto quello che abbiamo fatto nella nostra vita, alla nostra morte deve servire in maniera equa a più persone, in modo tale che non si possa creare questa disuguaglianza che per me in questo momento è insopportabile».

Ma siamo proprio sicuri che il privilegio sia una condizione positiva in assoluto? Chiara per un attimo si ferma a pensare a un suo amico appena rientrato in Italia che, pur vivendo circondato dall’agio, in una mansarda pagata dai genitori, pur potendo permettersi un proprio studio di registrazione, le ha confidato la sua tristezza, la sensazione di non essere nel posto giusto, nella vita giusta.

«Forse ha dimenticato che cosa gli piace fare nella vita. Ha lasciato che le comodità abbassassero il volume dei suoi desideri».

“Ho l’impressione che queste persone abbiano raggiunto meno obiettivi nella loro vita, che abbiano puntato meno in alto perché hanno saltato i gradini, non si perdendosi il gusto della salita. Avere pronto quel pezzo di strada le ha fatte probabilmente realizzare meno, nella misura in cui sono più insoddisfatte di quello che hanno realizzato”.

Condividi