Quando ho imparato a dire No al “cattivo” lavoro
Vanessa Bocchi ha 36 anni, vive a Catania ed è una libera professionista. Per molti anni pensa che l’unico modello professionale in grado di renderla felice sia quello tramandatole da suo padre, che per tutta la vita ha lavorato nella stessa azienda. Ma sarà solo nel momento in cui riconoscerà il suo vero valore, che questa concezione finalmente prenderà le forme della libera professione.
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“Sono a Milano, faccio lavori fighissimi, e intervisto persone che in qualche modo sono anche influenti nella società… poi però mi rendo conto che se non fosse per i soldi che ricevo da casa, io non potrei fare tutte queste cose. E un conto è a 25, 26 o 27 anni. Poi gli anni passano e ti chiedi se mai cambierà qualcosa”.
Vanessa Bocchi oggi ha 36 anni, vive a Catania ed è una libera professionista che si occupa di diritti, disparità di genere e diseguaglianze, specie nel mondo del lavoro. La formula “libera professionista”, che per molti è un ripiego o una condanna, per lei è la conquista di una dimensione in cui finalmente sentirsi comoda.
Una madre all’instancabile ricerca della felicità
Quando Vanessa nasce, a Mantova, i suoi genitori sono due persone giovanissime, alle prime esperienze nel mondo adulto.
«Mentre mio padre era la persona che portava a casa lo stipendio fisso, mia madre non sapeva ancora cosa le piacesse, e quindi per racimolare qualche soldo faceva le pulizie in uno studio dentistico e a casa di una signora. Perciò io cresco dando molto valore a tutto ciò che ho, proprio perché mi rendo conto che non è facile averlo».
Col passare degli anni, il padre di Vanessa fa carriera. Quando lei sta terminando le elementari, lui è direttore del settore commerciale della stessa azienda in cui ha iniziato a lavorare da ragazzo.
«Mio padre fa due colloqui in tutta la sua vita e poi rimane nella stessa azienda dove è tutt’ora; e questo si rivelerà poi una difficoltà nel nostro rapporto».
Sua madre, invece, è ancora in cerca della sua dimensione ideale.
«Mia madre mi ha sempre trasmesso di essere alla ricerca di quello che veramente la rendesse felice e questo è sempre stato un po’ anche il mio tarlo. Mi chiedevo: “Cavolo, ma è così difficile riuscire a incanalare una passione in un lavoro, renderlo utile e riuscire anche a farci dei soldi?”».
Questa ricerca di felicità porta la mamma di Vanessa a percorrere strade piuttosto insolite nel contesto sociale mantovano.
«Verso i trent’anni mia madre ha ricominciato a dedicare del tempo a se stessa. Lei ama molto viaggiare, quindi ha ripreso tantissimo ad andare in giro. Ricordo che a scuola mi chiedevano come mai lei non stesse a casa con me. A me invece sembrava normalissimo che lei volesse essere felice. Poi, sempre intorno ai trent’anni, i miei hanno divorziato e ricordo che una volta, in classe, la maestra ha chiesto di alzare la mano a chi avesse i genitori separati. Ricordo che anche questo, all’epoca mi condizionò molto. A me sembrava normale che lei cercasse di essere felice fuori dalla sua relazione, ma non era lo stesso per la società in cui vivevo».
Vanessa grazie al sostegno dei genitori frequenta un’università privata a Milano, la Iulm, e successivamente si trasferisce due anni a Londra dove studia giornalismo alla London School of Journalism. Quando rientra in Italia, sceglie di cercare lavoro a Milano.
«Ho iniziato come addetta stampa nel settore del design, avevo clienti sia in Italia sia all’estero. Mi è sempre piaciuto molto questo aspetto di poter comunicare con persone diverse. Poi ho collaborato con qualche agenzia di comunicazione, finché non ho iniziato a lavorare in una redazione di economia e finanzia come giornalista e addetta stampa».
La frustrazione del posto fisso e mal pagato
I compensi che Vanessa riceve, però, non rispecchiano il prestigio dei contesti in cui lavora. Né tantomeno bastano per vivere a Milano. Così è costretta a chiedere soldi a casa.
«Mi è stato anche proposto di fare da coordinatrice di una redazione e di prendermi determinate responsabilità per 1.200€ al mese. E questo dopo diversi anni di esperienza…».
“Facevo proprio fatica ad accettare di non essere valorizzata il giusto, e poi la necessità di ricevere sempre soldi da casa faceva sì che non fossi mai libera di prendere un’iniziativa. Magari avevo il desiderio di aprire un’associazione o qualcosa di mio, e non lo potevo mai fare”.
La frustrazione legata alle condizioni in cui svolge il suo lavoro le provoca veri e propri sintomi fisici.
«Non sono mai riuscita ad accettare lo stare in un ufficio otto ore per lavorarne cinque. Mi veniva la febbre e una volta sono anche finita in pronto soccorso. Non riuscivo ad accettare fisicamente che il mio tempo non valesse».
L’insoddisfazione di Vanessa è oggetto di frequenti discussioni con suo padre.
«Mi ricordo che una volta mi disse: “Il mio problema non è darti i soldi. Il fatto è che io voglio vederti felice. Mentre a ogni lavoro che fai non sei felice”. Ecco, la misura della felicità di una persona, per mio padre, è il lavoro».
Il peso del modello paterno
Per molti anni Vanessa riconosce nel modello professionale di suo padre l’unica opzione possibile per sentirsi realizzata.
«Io ho provato per diversi anni a ripetere il suo modello perché quelli sono i modelli che ti vengono dati in famiglia, e quindi pensavo che per riuscire bene nel lavoro avrei dovuto fare come lui. Quindi, cercavo sempre il tipo di lavoro col contratto a tempo indeterminato, convinta che avrei dovuto fare tutte le spunte che aveva fatto lui, perché questa era l’unica narrazione che conoscevo».
Benché questa tipologia di lavoro non sembra in grado di garantirle né il sostentamento economico né la felicità, Vanessa ha bisogno di mettere a posto le cose con suo padre, per poter cambiare direzione alla sua vita.
«Mi ricordo che una decina di anni fa c’era stato proprio un dialogo molto acceso in cui lui mi disse: “Ma è possibile che non riesci a trovare il posto fisso? Che non riesci a realizzarti?”. Lui non ce l’aveva con me, semplicemente non riusciva a capire perché non mi vedeva felice. Era arrabbiato per il fatto che quello che aveva fatto fino a quel momento per me, non fosse in grado di farmi sentire bene. Paradossalmente era un gesto d’affetto».
“Quando poi gli dissi come mi sentivo, finalmente sono cambiate molte cose, perché si è reso conto che sono una persona diversa da lui. E da lì mi sono proprio sbloccata professionalmente. Io sono una sostenitrice del fatto che più lavoriamo anche sulle relazioni in famiglia, più ci si sbloccano dei tasselli anche lavorativamente”.
La scoperta di ciò che la fa stare bene
Dopo quel confronto Vanessa inizia a fare ciò che la fa sentire bene. E come prima cosa, intraprende la libera professione.
«Io ero già freelance, ma avevo accettato di andare tutti i giorni in ufficio, quindi in realtà era più come se stessi lavorando con un contratto da dipendente. In questo caso, ero stata io che avevo deciso di non darmi il giusto valore».
Il sapersi dare il giusto valore passa per una serie di no che finalmente Vanessa impara a dire.
«Sapere dire di no al lavoro è difficile. Se poi non riconosci il tuo valore e pensi che già avere un lavoro sia il massimo a cui puoi ambire è pure peggio. Poi magari vedo attorno a me persone che, a volte, tendono veramente a dire di sì a tutto per la paura che non arrivi nulla. E lì riconosco che veramente c’è chi non ha alternativa».
“Ma invece, chi ha il privilegio, come ce l’ho avuto io, è giusto che sappia dire di no, perché se no lo usi male questo privilegio. Anche perché non saper dire di no ammala un po’ il sistema”.
Vanessa ci riesce facendo un lavoro con se stessa.
«Se io cambio delle mie dinamiche interiori so fare delle richieste diverse e so darmi valore in un modo differente. Questo lavoro di consapevolezza ha fatto sì che nel momento in cui un cliente mi chiedesse di andare in ufficio almeno due volte a settimana, io gli dicessi di no».
Questa legittimazione di un nuovo modo di lavorare fa sì che, complice il post pandemia e un fidanzato di origini siciliane, Vanessa decida frequentare sempre di più la Sicilia.
«Nel frattempo si era liberata una sua casa di proprietà a Catania e quindi abbiamo deciso di provare a vivere lì per un po’ e sperimentare questo nuovo stile di vita. Col passare del tempo mi sono resa conto che volevo proprio stare lì, creare delle amicizie, dei legami».
L’indipendenza economica, tardivamente raggiunta, è il primo passo per restituire valore alla società.
“Un po’ con il desiderio di costruire qualcosa di mio ed essere veramente autonoma, ma non per far vedere agli altri che sono indipendente, ma perché esserlo ti permette davvero di dar vita a qualcosa che crea valore sul serio”.
E questo valore Vanessa decide che vuole restituirlo al Sud. Si trasferisce così stabilmente a Catania.
«Milano è una città che dà tanto, però per certi versi ti satura. Perciò ho pensato: tutto quello che ho preso in dieci anni, grazie al mio privilegio, posso portarlo altrove e creare qualcosa di valore».
A Catania Vanessa decide di restare anche quando la storia con il suo fidanzato finisce. D’altronde, e questo lo ha imparato da sua madre, l’indipendenza affettiva è un altro traguardo importante. E la vita non è che una ricerca continua.
«Sono soddisfatta di questo percorso. Lo immagino come un percorso che dura tutta la vita, e che sia in grado di rendermi autonoma sia economicamente che affettivamente, che secondo me è una cosa che può essere difficoltosa soprattutto per noi donne. E molte volte, le due cose sono collegate».