Ho dovuto dare un valore economico alla morte di mia sorella, perché fosse fatta giustizia

Serena Dellamore ha 48 anni e vive in campagna, vicino Cesena. Nasce in una grande famiglia, dentro una grande casa, popolata di donne. Nel 1998, il destino di questa allegra  famiglia romagnola cambia per sempre. Serena ha 22 anni e la sua sorellina, quindicenne, Roberta, muore tragicamente investita da un’auto. Da quel momento in poi, la famiglia inizia a battersi per ottenere un risarcimento economico e condannare il colpevole, «perché superare il massimale previsto dall’assicurazione, in modo che il colpevole paghi di tasca sua, non vuol dire arricchirsi ma è una giustizia morale nei confronti della vittima».

Tempo di lettura: 9 minuti

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Serena Dellamore

Ascolta il podcast della puntata:

“Quando anche in questo mondo si parla di soldi, è brutto. Perché sai quanti sensi di colpa ha avuto mia madre quando la gente le diceva che si era arricchita con la morta di sua figlia? No, non è così. Perché superare il massimale non è arricchirsi, ma è una giustizia morale e di ripristino della dignità della famiglia o della vittima stessa”. 

C’è un lato oscuro, di cui nessuno parla, che si nasconde dietro la morte violenta di una persona; ed è il lato economico. In questa puntata, Serena coraggiosamente ce lo racconta, rompendo la spessa coltre che si forma quando due tabù si incontrano, quello dei soldi e quello della morte. 

Una famiglia di imprenditori risparmiatori

Serena Dellamore ha 48 anni e vive in campagna, vicino Cesena. Insegna latino e greco alle superiori, ma per tutta la vita ha fatto la giornalista. Nasce in una grande famiglia, dentro una grande casa, popolata di donne.  

«C’era la mia nonna Bisa, la mia prozia Oveglia, e poi c’era la mia Zia Carla, che era la mia seconda madre…la femminista. Prendeva il sole in topless e andava via con le amiche, in tenda. Perciò, sono cresciuta in questo ambiente di donne che si ritrovavano il pomeriggio in un salottino, dove ti dovevi orientare per il fumo, e discutevano, parlavano…».

L’unico uomo della famiglia è il padre di Serena, che aveva ereditato dal nonno Oreste un’azienda di camion che esportava prodotti alimentari verso la Germania. 

«Uno dei primi ricordi che ho di mio padre è lui che va in giro con i primi telefoni cellulari, che avevano la borsetta. Era sempre molto teso, perché la ditta dei camion gli portava via molte energie. Quindi io sono cresciuta in questa casa enorme con questa flotta di camion in giardino. Ancora adesso ho il ricordo dell’odore di benzina».

L’azienda è prosperosa, non hanno alcuna difficoltà economica, eppure Serena da piccola è convinta di essere povera. 

«Mio padre, mia madre e mia nonna ci dicevano che eravamo indigenti e che quindi non potevamo fare spese eccessive. E per questo, io mi son sempre considerata, non dico povera, ma quasi. Noi non facevamo le vacanze nei grandi alberghi, e non potevamo prendere l’aereo perché, come diceva mio padre, non ce lo potevamo permettere. Noi giravamo con la roulotte che, per me e mia sorella, era la macchina della fantasia. Una volta ci portarono in un campeggio con la piscina, e a noi ci sembrava impossibile perché di solito il range dei miei genitori era molto più spartano».

Quando nasce la sorellina di Serena, i suoi genitori decidono di vendere la ditta di camion e di dedicarsi in prima persona a un’altra attività di cui la piccola Serena non sapeva neppure l’esistenza: un albergo sulla riviera romagnola. 

“I miei genitori sono stati bravissimi perché, dopo circa una quindicina d’anni che lo avevano in gestione, avevano già creato una lista di clienti abbondante. Ci hanno guadagnato veramente tanto con quell’attività, e io mi ricordo gli anni d’oro della riviera romagnola, dove c’era gente che pur di venire in vacanza da noi affittava la cantina”.

Quelli sono gli anni in cui Serena, finalmente, capisce di non essere indigente. Benché i suoi continuino a non concedersi alcun godimento, nei confronti delle figlie allentano le redini. 

«Tant’è che io potevo benissimo andare a prendere i soldi dal cassetto del bar e spenderli nel negozio di giocattoli. Avevamo una gestione molto libera delle spese e non siamo mai state sgridate perché spendevamo troppo. Quando sono cresciuta i miei mi hanno regalato un orologio d’oro e io lo mettevo sempre, anche per andare in Università. E lì, mi sono resa conto che la gente mi guardava con occhi diversi, anche se io non ci avevo mai fatto caso, perché comunque sono cresciuta con l’idea che i soldi si fanno lavorando e risparmiando tanto. La differenza che noto con la generazione dei miei genitori è che loro non se li sono goduti, come se ci fosse stata una sorta di vergogna nello spendere».

L’anno in cui tutto cambia

Nel 1998, il destino di questa allegra e rumorosa famiglia romagnola cambia per sempre. Serena ha 22 anni e la sua sorellina, quindicenne, Roberta, muore tragicamente investita da un’auto. Sembra blasfemo raccontare di soldi quando c’è di mezzo la morte, ma è il punto di vista di questo podcast e Serena ha accettato di farlo. D’altronde non c’è niente connesso ai soldi come la morte. Norman O. Brown, nel 1959, spiega la spinta all’accumulo di colossali fortune, non spendibili in una vita intera, come una sorta di risposta all’angoscia della morte.

«Quando lei è morta c’è stato un momento in cui mio padre si è reso conto che era assurdo aver accumulato per tanti anni senza mai averne goduto. La frase che disse fu: “Ecco, abbiamo sbagliato a non prendere mai un aereo quando era viva la Roberta perché dicevamo che non ce lo potevamo permettere”. E infatti, la prima cosa che abbiamo fatto, un anno dopo la sua morte, è stata prendere un aereo, seppure per motivi di lavoro di mio padre, e andare a Santo Domingo. Lì, i miei non badarono a spese».

Per sua madre, però, subentra presto un altro tipo di condizionamento.  

«Da parte di mia madre, invece, soffrire per la morte della figlia diventò indice di non spendere. Per esempio, se lei andava al bar o al ristorante, aveva paura che qualcuno la vedesse mentre lei si divertiva».

In quel momento di forte sofferenza, i suoi genitori hanno la lucidità anche di fare un’importante scelta di business. Un anno dopo la morte di Roberta, l’Hotel Zeus diventa il primo albergo gay d’Italia.

«Paradossalmente, il dolore della mia famiglia incontrava molto il dolore e le difficoltà di vita che questi uomini ancora incontravano nel vivere apertamente la loro omosessualità. E quindi si era creato quest’ambiente dove la ricetta funzionava. Anche dal punto di vista economico potevano avere un tracollo, e invece quella scelta si è trasformata in un grande guadagno».

In quella situazione, la loro forza sta proprio nel restare ancorati al presente.

,«Ma sai quante famiglie prese dal dolore sono state distrutte perché non hanno più trovato la forza di lavorare? C’è stato un momento, quando avevo 22 anni, in cui ho pensato che se i miei avessero smesso di lavorare ci saremmo mangiati tutto».

“Quindi, tu devi mettere il tuo dolore in un angolo ed essere obiettivo, perché sennò tutta la tua vita va a rotoli. Il discorso economico, in queste situazioni è fondamentale ed è purtroppo un aspetto che raramente viene analizzato”.

La battaglia legale

Con la stessa lucidità con cui trova il modo per tenere in vita la propria attività, la famiglia di Serena inizia una battaglia legata al risarcimento economico dato alle famiglie delle vittime. 

«Funzionava così: in un incidente stradale, prima del processo penale, le assicurazioni ti contattavano e ti davano una sorta di previo risarcimento del danno. E io mi sono ritrovata a dover portare nella mia borsa un assegno da 450 milioni di lire. Mi sembrava di avere il sangue di mia sorella nella borsa».

La famiglia Dellamore, però, non ha nessuna intenzione di patteggiare come di solito si fa in questi casi, con la conseguenza che il colpevole non trascorre neanche un giorno in carcere e non sborsa neanche un euro di tasca sua. La loro sfida, durante il processo, è far sì che vengano riconosciuti più anni possibile di reclusione e un risarcimento economico che superi il massimale previsto dall’assicurazione.

«Perché l’unica cosa che alla famiglia interessava era che non si superasse il massimale che lui aveva con le assicurazioni perché così non dovevano tirar fuori dei soldi di tasca loro».

“Per la famiglia in questione non contava il fatto che fosse stata tolta la vita a una ragazzina di quindici anni. Contava solo il danno economico che questo incidente poteva provocare. E quindi noi ci siamo adattati, e ci siamo dotati di un cinismo incredibile”.

Il risarcimento viene definito in base a delle tabelle in cui vengono valutati diversi parametri. La famiglia Dellamore ottiene che sia inserito, per la prima volta, tra quei parametri, il danno esistenziale.

«E quindi abbiamo superato il massimale dei 2 miliardi e la famiglia ha dovuto coprire a sue spese la restante parte. Paradossalmente io mi sono dovuta giocare la dignità e la vita di mia sorella dal punto di vista economico».

Non solo. I Dellamore, nel 1999, sono stati la prima famiglia in Italia a ottenere una condanna di due anni e sei mesi di carcere contro una persona che aveva provocato un incidente mortale.

«Io mi ricordo ancora al Tribunale di Forlì le urla quasi impressionate dell’avvocato della controparte che diceva che non si era mai vista una cosa del genere».

La trasfigurazione dei soldi 

Con i soldi ottenuti per quasi vent’anni i genitori di Serena hanno portato avanti un’associazione nazionale per fare pressione sulle istituzioni affinché si occupassero di sicurezza e prevenzione. E per prestare soccorso psicologico e legale ai familiari delle vittime della strada. Affinché la sopraffazione del dolore non li inibisse dall’esigere giustizia. 

«Non so cosa possa significare per un genitore vedersi risarciti una figlia con dei soldi. Però è un tabù molto forte, perché è come se una persona stia lucrando sulla morte dei propri cari. Sai da quante persone me lo sono sentita dire? Per i primi anni dopo l’incidente, quando succedevano incidenti gravi nel mio territorio, io andavo lì e mi presentavo con gli opuscoli dell’associazione. Molte volte ricevevo risposte molto dure, poi però tornavano e ci chiedevano aiuto».

Anche Serena deve lottare per dare un senso ai soldi che ottiene in quanto sorella. E li trasforma in un investimento nel futuro dei suoi figli.

«Perché sennò sarebbe stato come quella volta che mi portavo l’assegno di 450 milioni nella borsa, e sarebbero diventati di nuovo il sangue della mia sorella. Perché non ci sarà mai una cifra che andrà a coprire la perdita di un figlio».

Le chiedo da dove arrivi alla sua famiglia tutta quella forza per lottare. 

«Arriva da tutte quelle donne forti nella mia famiglia, per esempio dalla mia zia Oveglia, che ha vissuto con il forte amore per il suo babbo, ma del quale non poteva parlare perché era una camicia nera fascista; dalla mia nonna che lavorava all’Arrigoni e che anche quando il marito aveva la più grande azienda di autotrasporti di Cesena ha continuato lo stesso a lavorare; da me e dalla mia nonna Carolina che, nonostante il suo grande dolore, ha saputo tenere salda la famiglia».

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