In sede di divorzio, ho presentato il conto del mio lavoro di cura

Liana Doro cresce in un ambiente fortemente patriarcale, dove tutte le risorse sono destinate alla crescita del fratello maggiore. Nel momento in cui decide di ribellarsi alle aspettative familiari, intraprende un percorso di emancipazione attraverso gli studi e il lavoro. Dopo aver superato numerose sfide, tra cui conciliare maternità e carriera, diventa avvocato specializzata in diritto di famiglia. La sua esperienza personale la porta a difendere i diritti delle donne e a supportarle nel momento del bisogno. Ma a un certo punto toccherà a lei stessa attraversare l’esperienza vissuta tante volte volte attraverso le storie delle sue clienti. 

Tempo di lettura: 9 minuti

Liana Doro

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«Quando metti davanti i figli nella prima parte della tua vita, ti ritrovi poi a 50 anni che la tua posizione è molto diversa da quella dell’uomo che ha sempre lavorato e non si è occupato principalmente dei figli. E quindi io ho raccontato la mia storia dicendo che avrei dovuto avere un assegno di mantenimento che tenesse conto che avevo fatto da psicologa, autista, cuoca, domestica…».

Un tema di cui parliamo spesso, a Rame, è la valorizzazione economica del lavoro di cura all’interno delle mura domestiche. Nella maggioranza delle famiglie, con l’arrivo dei figli, il carico relativo a queste mansioni si sbilancia pesantemente sulla donna, condizionando le opportunità di carriera e più in generale la libertà di autodeterminarsi. Ed è proprio a partire da questa consapevolezza che Liana, nel momento del divorzio, ha fatto una vera e propria azione dimostrativa. 

Una famiglia patriarcale

Liana Doro è un’avvocata che si occupa di diritto di famiglia. Vive a Padova, e proviene da un contesto che lei stessa definisce patriarcale. 

«Mio padre era l’unico che lavorava, mia madre faceva la casalinga. Ho un fratello di un anno e mezzo più grande di me e tutte le risorse erano dedicate a lui, perché era lui che doveva crescere, studiare e poi mantenere una famiglia; per me era stato scelto che io mi sposassi, avessi famiglia e continuassi così. Non era assolutamente importante per loro che io studiassi».

Questa disparità, che Liana riconosce solo in età adulta, a quell’epoca, le sembrava normale. Mentre il fratello percepisce una paghetta, a lei non è consentito maneggiare soldi. 

«Lui aveva anche una Vespa, io niente: non potevo andare al cinema, non potevo uscire e non potevo nemmeno frequentare nessuna attività sportiva. Si può dire che ero come rinchiusa. Ovviamente a quell’età pensavo che fosse giusto mantenersi illibate, come si usava una volta. Poi, crescendo mi sono resa conto che invece altre donne non avevano avuto questo tipo di educazione».

Persino gli studi di Liana vengono stabiliti dal padre.

«Ha voluto che facessi le scuole magistrali proprio per lavorare in quell’ambito: mi ricordo che mi portava a casa i dépliant dei corsi di cucito. Non riuscivano a capire che, in realtà, io ero molto diversa».

La diversità di Liana dai modelli che le vengono imposti, ma anche la frustrazione per il fatto di non poter gestire soldi, accendono in lei le prime fiammate di ribellione.

«Non mi potevo comprare nemmeno quelle poche cose che non erano considerate indispensabili. Quindi, da lì, è nata in me la sensazione di voler essere un po’ più indipendente».

Liana prende la maturità magistrale e si mette subito a insegnare.

«Ho lavorato sia come supplente a scuola sia all’interno di una televisione, ed era una cosa che mi piaceva molto. Registravo una volta a settimana e guadagnavo prima 300.000 lire, poi 500.000. Non era male».

A quel punto, però, invece di limitarsi a togliersi ogni sfizio, Liana decide di iscriversi all’università. La stessa facoltà di suo fratello, Giurisprudenza, ma ricevendo un trattamento molto diverso dal suo. 

«A casa mia funzionava così: svegliavano presto mio fratello perché doveva andare a lezione ma di me si dimenticavano. Mi ricordo che quando gli chiedevo il perché non mi avessero svegliato, loro mi rispondevano che non era così importante che io frequentassi. Loro la vedevano come una perdita di tempo. Forse è stato proprio questo atteggiamento a spronarmi a dare il meglio».

La volontà di emanciparsi

Liana conosce uno studente di Giurisprudenza suo coetaneo, che sposa a 23 anni e di cui, poco dopo, resta incinta. Durante gli anni dell’Università Liana fa 3 figli, e mai una volta pensa di abbandonare gli studi. 

«Dentro di me era talmente radicata l’idea di avere un lavoro che mi desse un’emancipazione e che mi permettesse di essere economicamente indipendente che di giorno mi occupavo dei bambini, mentre di notte mi dedicavo allo studio per andare avanti con gli esami. Ero sola: nemmeno i miei genitori hanno compreso quanto in realtà avessi bisogno di aiuto».

In quegli anni, Liana e il marito sono sostenuti economicamente dalla famiglie d’origine.

«Io avevo sempre quel mio lavoretto in televisione che mi permetteva di far fronte a una parte delle spese. In più, con le supplenze a scuola ho avuto per tre volte l’indennità di maternità. Anche lì è stata una specie di battaglia perché il direttore della scuola, essendo supplente, non era d’accordo a darmi l’indennità. A quel punto, io che già sentivo molto mia questa strada, sono andata a prendere la legge per spiegarli che in realtà ne avevo il diritto: visto che non pubblicavano concorsi da un po’, davano anche alle supplenti la possibilità di andare in maternità. E io l’ho fatto per tutti e tre i miei figli».

A 29 anni, quando riesce a laurearsi, inizia per Liana il secondo tempo della vita. Quello in cui può finalmente rendersi autonoma dalla famiglia di origine. E fare il lavoro che sogna. Anche se non è facile come dirlo.

«Inizialmente non mi davano più di tanto credito perché sapevano che avevo figli. Già al primo colloquio mi dicevano: “So che hai famiglia, per cui non pensare di trovare uno stipendio qui”. Più di una volta mi hanno chiamata signora e non avvocato».

Nonostante gli anni di studio e i tanti ostacoli superati, Liana ha un momento di crollo. 

«Non mi sentivo né una brava madre, né una brava moglie, né una brava lavoratrice. E nel momento in cui ti senti un fallimento in ogni attività che stai svolgendo, è proprio lì che arriva il momento in cui bisogna tenere duro, perché altrimenti, la prima cosa che molli è il lavoro».

Liana lo vede succedere tra le sue prime clienti. Quasi per caso, infatti, si ritrova a occuparsi di diritto di famiglia, al fianco di donne che cercano di dare una svolta alla loro vita.

«Ho iniziato a fare volontariato in un consultorio e da lì io ho cominciato a fare delle mie pratiche personali e ad avere i miei primi clienti, quasi tutte donne. Che a loro volta poi mi portavano le zie, le sorelle, le cugine. C’è stato un momento in cui avevo tutti i nomi uguali in studio e mettevo A, B e C dopo il cognome per differenziarle».

La responsabilità di aiutare le altre

Liana oggi sa di essere scivolata nel diritto di famiglia a causa della sua storia personale.

«Se non avessi avuto una famiglia patriarcale probabilmente non avrei fatto questa scelta. È un po’ un rammarico che ho adesso, perché a me piace molto il commerciale e l’attività di azienda. E invece mi sono trovata in una situazione dove ho cercato sempre di aiutare le donne a emanciparsi, a diventare indipendenti e a non pretendere dalla separazione chissà mai che cosa, per poi essere sempre dipendenti dall’uomo».

Mentre aiuta le donne a rendersi indipendenti, Liana combatte perché il suo stesso lavoro abbia un giusto riconoscimento economico. 

«Il diritto di famiglia è un settore che ha a che fare con le persone; ed è come se al primo incontro, quando ti raccontano la loro storia, quel tempo non avesse un costo. E infatti negli anni ho inserito nella mia attività, la consulenza a pagamento da subito. E questo permette anche alla persona di riconoscere il tempo che gli dedichi e ti prendono più sul serio».

Occupandosi di diritto di famiglia, Liana scopre un tipo di violenza, poco conosciuto e difficile da identificare, perché non se ne portano i segni sul corpo, ma soprattutto perché non se ne parla. La violenza economica. 

«La maggior parte delle donne che sono venute erano donne che non lavoravano e che quindi dipendevano dal marito. Questo tipo di storie sono presenti 24 ore su 24 nell’attività di studio, perciò loro ti chiamano e ti cercano continuamente perché io faccio proprio il tipo di assistenza di cui loro hanno bisogno. Io ho addirittura un numero di cellulare dove sono quasi sempre rintracciabile, e in tanti mi chiedono perché faccio così».

«Beh, io faccio così perché in diritto di famiglia molte volte ci sono delle situazioni che possono sfociare in drammi veri e quindi bisogna intervenire subito».

Da più di 25 anni Liana si batte per far in modo che le donne riescano a raggiungere la propria emancipazione, sia personale sia finanziaria.

«Avevo un sacco di clienti che avevano più o meno la mia età, che non avevano un lavoro e che si trovavano spesso lasciate dai mariti. A loro ho cercato di insegnare subito a non piangersi addosso e a cercarsi un lavoretto anche piccolo per poter fare delle scelte proprie; però la donna fa molta fatica a uscire da questa situazione e normalmente cede e rinuncia a tutto. Invece io ho sempre cercato di sostenerle».

A un certo punto toccherà a lei stessa attraversare l’esperienza vissuta tante volte attraverso le sue clienti. Dopo 25 anni di matrimonio Liana e suo marito decidono di divorziare. E lei si pone l’obiettivo di ottenere il riconoscimento economico del lavoro di cura svolto durante gli anni precedenti. 

«C’è stato un periodo in cui lavoravo nello studio dove lavorava anche mio marito. Poi però, ad un certo punto, io mollavo tutto perché andavo a casa a preparare la cena. Io mi ricordo questa cena in cui avevo fatto una pasta con il ragù e lui è arrivato e ha detto: “Ma solo questo c’è da mangiare?”».

Suo marito, avvocato come lei, che col tempo aveva imparato a riconoscere il doppio turno di lavoro della moglie, a casa e in ufficio, di fronte alle carte di divorzio, smette di avere qualsiasi forma di gratitudine.

«E allora cosa ho fatto? Ho presentato un ricorso dove ho raccontato la mia storia, perché potesse anche essere un po’ di esempio alle altre mie clienti cinquantenni che si trovavano ad affrontare una situazione simile. Ho raccontato la mia storia da ragazza e le difficoltà del lavoro nel momento in cui decidi di essere anche madre. E in maniera un po’ provocatoria ho depositato una richiesta economicamente assurda: avevo chiesto per me 5000 euro, più 1000 euro per ogni figlio. Alla fine ho chiuso con 3000 euro, che non è poco».

Quello che ottiene Liana è l’affermazione di un principio. E cioè che non basta che la donna lavori perché i conti siano pari al momento della separazione.

«Molti pensano che se lavori non hai diritto al mantenimento ma questo non è vero: magari hai un tuo reddito, però hai lo stesso diritto ad avere questo contributo».

 

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