Quel passaggio generazionale gestito senza mai parlare di soldi

Camilla Negri ha 34 anni ed è originaria di Fontana Fredda di Cadeo, un paese in provincia di Piacenza, dove il padre negli anni ’80 avvia un’azienda che si occupa di vendita di attrezzature per la ristorazione. Quando era ragazzina, Camilla aveva altri sogni, le sarebbe piaciuto viaggiare, ma oggi lavora come responsabile del Marketing nell’azienda di famiglia, che un giorno erediterà. Eppure il passaggio di conoscenze da parte dei suoi genitori si è come inceppato, e ancora una volta, c’entra il tabù dei soldi. 

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Camilla Negri

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«Nel passaggio generazionale il problema è che questo sentirsi da una vita come il futuro dell’azienda, senza mai essere realmente interpellati su quello che sarebbe voluto veramente essere, non ti fa mai sentire all’altezza».

Camilla Negri ha 34 anni. Da ragazza aveva altri sogni, ma oggi ha preso atto che non può permettersi di sbattere la porta in faccia al privilegio. Lavora nell’azienda di famiglia che un giorno erediterà. Eppure il passaggio di conoscenze e competenze da parte dei suoi genitori si è come inceppato. E in questo, ancora una volta, c’entra il tabù dei soldi.

Tutta una vita dentro l’azienda di famiglia

Camilla è nata e cresciuta a Fontana Fredda di Cadeo, un paese in provincia di Piacenza, dove il padre negli anni ‘80 fonda un’azienda che si occupa di vendita di attrezzature per la ristorazione.

«Lui ha sempre avuto un’idea molto chiara in testa, e cioè che non avrebbe mai fatto il dipendente. Quindi, dopo un’esperienza da ragazzino, ha deciso di aprire la sua attività. E infatti l’anno scorso abbiamo compiuto i 40 anni. Lui ha conosciuto mia madre che lei aveva 14 anni, quindi quando è diventata maggiorenne è entrata naturalmente anche lei a far parte della sua attività. Loro si aspettano che saremo io e mio fratello a portarla avanti, perché nel loro sogno tutti e tre i figli lavorano in azienda e abitano vicino a loro. In questo mondo idilliaco, in cui non è previsto che magari i figli abbiano anche idee diverse su come gestire la propria vita, tutto rimane all’interno».

Ma, come dire, fin da quando è bambina Camilla nutre una forte repulsione per quell’attività di famiglia in perenne lotta con i competitor, le banche, i pagamenti.

«Quando si era a casa si parlava solo di lavoro, dell’azienda e dei problemi dell’azienda. Poi i miei genitori non sono mai stati bravi molto a camuffare e quindi li hanno sempre portati a casa. Perciò io ho sempre pensato che questa cosa non mi sarebbe mai riguardata».

Quello che Camilla vede è anche un lavoro che fagocita completamente i suoi genitori.

«Loro sono persone che hanno dedicato l’intera vita al lavoro e quindi lavorare meno di 12 ore al giorno non è concesso. Io non mi sono mai sentita come la bambina a cui mancavano cose, però da parte dei miei genitori mi è mancato proprio quel tipo di rapporto per il quale si fanno cose insieme, oppure anche soltanto con i quali hai argomenti di conversazione che non siano il lavoro».

Camilla però ha un altro modello di riferimento nella sua vita.

«Sono cresciuta in un limbo, una via di mezzo fra i miei genitori che hanno sempre lavorato, e mia nonna che aveva tutta un’altra idea della vita».

La nonna, per intenderci, aveva rinunciato a comprare casa pur di permettersi di portare in vacanza i figli.

«E lei ha detto: “allora no, io sto in affitto tutta la vita, però continuo a fargli fare una vita in cui posso permettermi di dargli quello che meritano”. Quindi io sono cresciuta, da una parte, con l’idea di cercare di godersi la vita nel limite dei propri mezzi, e dall’altra, con la consapevolezza che bisognava lavorare, studiare, lavorare e studiare».

Finito il Liceo, Camilla, piena di incertezze, si iscrive a Scienze della Comunicazione.

«Anche lì, mia madre si è proposta di pagarmi qualunque tipo di università io avessi voluto. Io mi sono rifiutata perché comunque siamo delle persone normali, e non mi andava di strafare facendo chissà quale percorso. Però non avevo assolutamente idea di ciò che avrei voluto fare nella vita».

«A un certo punto ho maturato la consapevolezza che mi sarebbe piaciuto viaggiare tantissimo, e se avessi potuto, magari l’avrei reso anche un lavoro. E per mia madre, questa era una di quelle cose inconcepibili, perché comunque tu stai sprecando un sacco di soldi per stare lì qualche giorno, e invece per me era visto come un arricchirsi».

L’impossibilità di scegliere

Durante gli anni dell’università, Camilla inizia a trovare dei lavoretti.

«Non posso dire che sia stata una mia iniziativa personale perché mia madre continuava a dirmi: “devi lavorare, lavorare, lavorare”. Perciò ho iniziato a fare la cameriera al bar, o le ripetizioni ai ragazzi delle medie. Poi, successivamente ho iniziato a fare le stagioni estive in montagne, perciò passavo le estati a lavorare no-stop».

Con quei soldi però, non può farci ciò che crede.

«Questa cosa di guadagnarmi i soldi da sola mi è servita per far dire a mia madre: “Okay, adesso tu non li usi. Li tieni lì perché vedrai che ti verranno buoni, al massimo li investi in banca, però non li devi toccare per le spese quotidiane”. Questo per me era un po’ strano, nel senso che se devo capire il valore dei soldi, lo voglio fare spendendo quello che ho guadagnano, mentre se continuo a spendere ciò che mi danno i genitori, non ha molto senso».

Camilla, in realtà, con questa educazione, sta imparando una lezione che capirà solo anni dopo. E cioè che è proprio quando si è giovani che bisogna pensare al futuro.

«A 19 anni mi sembrava assurdo dover pensare alla pensione. Già solo ora che ho 34 anni mi è tutto molto più chiaro. Quindi io, adesso, ho almeno due assicurazioni sulla vita, sulla salute e ho attivato tutta una serie di piani di accumulo; perché loro mi hanno sempre insegnato che questo tesoretto non me lo deve togliere nessuno. Se non me lo darà lo Stato riconoscendomelo con la pensione devo averlo io da parte».

Finita la triennale, Camilla entra in un limbo: non vuole proseguire gli studi, ma non riesce neppure a trovare un lavoro che le dia il giusto riconoscimento economico e personale.

«Non trovavo nulla che mi desse soddisfazione, o che comunque mi desse uno stipendio. Ho fatto diversi colloqui e almeno in tre posti non mi volevano pagare. I miei colloqui si svolgevano più o meno così: ti prendiamo sei mesi, non ti diamo neanche un rimborso spese e non pensiamo neanche di assumerti dopo».

Camilla ha all’incirca 24 anni non ha nessuna intenzione di lavorare gratis ed è lì che si colloca la scelta di entrare nell’azienda di famiglia.

«È stato anche un po’ una sconfitta per me arrivare in azienda».

Camilla inizia scrivendo contenuti, che è ciò che ha studiato, e fa tutti i passaggi riservati ai normali dipendenti.

«Prima ero messa giù a ore, poi ho iniziato con un part-time. Al contratto a tempo indeterminato ci sono arrivata che avevo praticamente trent’anni».

Oggi Camilla è responsabile marketing, ha un contratto a tempo indeterminato e una posizione piuttosto scomoda in azienda.

«Mi trovo in una condizione in cui sono dipendente, ma rispetto ai miei colleghi dipendenti sono vista come la figlia del capo e perciò vengo un po’ messa da parte. Lavoro nell’ufficio insieme a loro, faccio gli stessi loro orari, poi però quando c’è da fare del lavoro extra ovviamente ci devo essere io, perché è giusto che sia io a coprire quello che loro non hanno fatto».

Tutto ciò che Camilla sa sulla gestione delle persone, lo ha imparato dai suoi genitori. Ciò che invece non le hanno mai trasmesso è come si gestisce finanziariamente un’azienda.

«Non penso che né mio padre né mia madre pensino che noi possiamo essere all’altezza di mandare avanti l’azienda. Probabilmente adesso è anche vero, però si parla sempre e solo di problemi, mai di soldi. Magari i fatturati sono in decrescita, o non sappiamo quali finanziamenti abbiamo. Ogni tanto saltano fuori queste questioni ma noi veniamo sempre messi da parte. E penso che portare questo argomento nella conversazione, aiuterebbe a fargli capire che siamo anche in grado di gestire anche questa parte di attività».

Il parere dei figli non viene ascoltato neppure quando vengono fatte scelte importanti.

«Un paio d’anni fa è stata presa la decisione di comprare i muri dell’azienda. Io e mio fratello eravamo terrorizzati all’idea, però loro questo passo l’hanno fatto lo stesso. Ne abbiamo parlato, ma più che parlato, ne abbiamo letteralmente discusso».

Una diversità di pensiero

A creare un solco tra le generazioni, secondo Camilla, c’è anche un diverso modo di intendere il lavoro cosiddetto di pensiero rispetto a quello fisico.

«Non so se è una questione generazionale, perché non bisogna mai generalizzare troppo, però mio marito, che è odontotecnico, arriva in questo periodo dell’anno che è molto stressato perché hanno molto lavoro. Suo padre, che è muratore, gli ripete sempre: “tu non sei in cantiere, tu sei in uno studio con l’aria condizionata accesa, quindi ti va bene, sia che tu faccia otto ore, sia che tu ne faccia dodici, perché il lavoro fisico è un’altra cosa”».

«Quindi ci capita di avere questi scontri con i nostri genitori per cercare di far capire che, nonostante noi facciamo cose differenti da loro, non vuol dire che valgano di meno».

Se c’è una cosa su cui Camilla avrebbe voluto prendere nettamente le distanze dai suoi genitori è l’equilibrio vita lavoro.

«Quando avevamo vent’anni pensavano di essere tanto ribelli e che avremmo fatto una vita diversa. Alla fine, invece, ci siamo trovati a fare esattamente le stesse cose, né più né meno: lavoro, casa, famiglia, lavoro, casa, famiglia. Una volta all’anno si riesce ad andare in vacanza, ogni tanto si esce a cena, puoi permetterti di avere quello che ti serve per il cambio stagione, paghi le bollette e magari arrivi a fine mese che non ne hai più, tra ciò che spendi e ciò che metti da parte. Però quel tipo di vita che ripudiavamo ci siamo ritrovati a farla anche noi».

Con una seconda figlia in arrivo, che nel frattempo è nata, Camilla sa che il suo congedo di maternità non potrà mai essere un reale stacco dal lavoro.

«Io adesso so che andrò in maternità e che durante questi cinque mesi che farò a casa non smetterò mai di essere reperibile. Già col primo figlio è stato così: avevo spostato il computer dall’ufficio a casa e nel momento in cui il bambino dormiva, io lavoravo. Non facevo le mie otto ore, è chiaro, però cercavo comunque di organizzarmi».

Di diverso, rispetto ai suoi genitori c’è di sicuro l’aspirazione a un godimento della vita, che però senza una chiara pianificazione, continua a essere rimandato nel tempo.

«Dal 2018 ci siamo fatti un piccolo salvadanaio in cui mettiamo qualcosa tutti i mesi per poter fare, o per il 10° anniversario, o anche tirando un po’ più avanti, un viaggione di quelli che dico io. Questa è la soddisfazione della vita che vorrei togliermi dopo il nostro viaggio di nozze. È molto difficile, perché è come se noi continuassimo a spostare le nostre aspettative sempre un po’ più in là: quando avevo vent’anni, avevo l’aspettativa sui trenta, adesso ce l’ho sui quaranta. So che è tutto un rimandare in attesa che succeda qualcosa di molto bello, però mi sembra che più che un sogno nel cassetto, questo sia un sogno e basta. Però prima o poi so che succederà, e non me lo toglierà nessuno».

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