Come capire (e cosa fare) se sei una “finta” Partita Iva

Qual è il confine tra lavoratore autonomo con un solo committente e “finta partita Iva”, o meglio, dipendente mascherato da autonomo? La differenza non sempre è netta, e può essere facile cadere nella trappola della finta autonomia, con retribuzioni che al netto si rivelano da fame, tanti doveri e pochi diritti. Un’esperta di diritto del lavoro e precariato ci ha spiegato quali sono le spie per capire che qualcosa non va per il verso giusto, come distinguerle e come muoversi.

Tempo di lettura: 9 minuti

Giorgia Nardelli
Giorgia Nardelli

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Giornalista esperta di diritti dei consumatori e finanza personale.

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Lavorare per 8 ore al giorno, non una di meno, per un solo committente, a volte con l’obbligo di andare in ufficio o di collegarsi via Teams ogni giorno, con tariffe orarie e ferie concordate. Le chiamano “finte partite Iva”, professionisti liberi solo sulla carta, in realtà dipendenti mascherati da collaboratori autonomi. Del fenomeno si parla da quasi vent’anni, ma in realtà poco si è fatto per debellarlo, e resiste: dieci anni fa uno studio Isfol calcolava che le partite Iva “finte” fossero il 15% del totale, una ogni 7, stime più recenti parlano di circa 400.000 lavoratori su una platea di 3 milioni.
A rischio sono, come è facile immaginare, soprattutto coloro che lavorano per un solo committente, ma anche in questo caso riconoscere gli abusi non è così immediato. Un’avvocata ci spiega come capire quando si è varcato il confine.

Chi sono le finte partite Iva

Cosa significa in concreto “finta partite iva” lo riassume Silvia Santilli, vicepresidente di Acta, l’Associazione dei Freelance, e avvocata giuslavorista: «Il fenomeno si verifica quando pur in presenza di un contratto che viene definito di lavoro autonomo (contratto che può essere anche solo “orale”) un lavoratore autonomo si trova a svolgere un lavoro che nei fatti ha tutte le caratteristiche tipiche di un lavoro subordinato ma senza le tutele che la legge riserva al dipendente: pagamento dei contributi previdenziali, indennità di malattia e maternità di un certo tipo, tredicesima, Tfr e ferie pagate, per citare i principali. Purtroppo, ancora oggi molte aziende propongono deliberatamente questa formula ai lavoratori, perché consente loro un grosso risparmio di denaro ma anche poca o zero burocrazia, e meno lacci e lacciuoli. Alla scadenza del contratto, per esempio, si decide se rinnovarlo o meno, senza complicazioni e vincoli legali». In un mondo ideale dovrebbe essere il libero professionista a scegliere, liberamente appunto, di rinunciare a determinate tutele e garanzie a fronte della possibilità di gestire in autonomia come organizzare il proprio lavoro, in cambio di un guadagno adeguato, e una certa libertà decisionale. Ma, purtroppo, a volte queste condizioni vengono a mancare, e questi si trova inviluppato in una rete di obblighi da rispettare.


Non solo una questione di contratti

Oggi, spiega Santilli, grazie alle moderne tecnologie che consentono di lavorare da remoto, è soprattutto il lavoro intellettuale a prestarsi a quella che è una vera e propria forma di sfruttamento, di cui non tutti si rendono conto. «Se è vero che nel diritto privato la contrattazione tra le parti è libera, e si possono stabilire le condizioni in autonomia, quando si parla di lavoro subordinato la legge impone determinati paletti a tutela di quella che è la parte debole del rapporto contrattuale. In sostanza … se concretamente il rapporto di lavoro assume le sembianze tipiche di un impiego di tipo subordinato, allora il lavoratore ha diritto a tutte le tutele e i diritti che la legge gli riconosce. E se ciò non si verifica un giudice potrà in qualsiasi momento accertare, su richiesta del lavoratore, e stabilire che chi prestava servizio ha diritto a vedersi riconosciute anche retroattivamente tutte quelle tutele che gli sono state negate». 

Come si riconosce una falsa partita Iva: gli indici di subordinazione

Saper riconoscere quelle caratteristiche che fanno la differenza non è scontato, ma è importante imparare a farlo. «Volendo semplificare un terreno che è comunque complesso, potremmo riassumere la differenza citando la formula che spesso troviamo nelle sentenze dei tribunali: ciò che distingue il lavoro subordinato dal lavoro autonomo è “il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo organizzativo e disciplinare del datore di lavoro”», spiega Santilli. «Vi sono alcuni fatti e comportamenti riconosciuti come sintomatici dell’esistenza di tale vincolo, che vengono comunemente definiti “indici di subordinazione” e che se presenti danno in qualunque momento il diritto di rivolgersi a un giudice». Come si individuano? Facendosi alcune domande. Eccole:

Le domande da farsi

  • Chi decide cosa faccio durante la giornata lavorativa? Sono libero di organizzarmi il lavoro, o c’è qualcuno che mi impone le priorità, al di là delle scadenze concordate, e mi dice di cosa occuparmi giorno per giorno?

«Impariamo a distinguere tra scadenze contrattualmente concordate e imposizioni. Anche se c’è una data di consegna da rispettare, il lavoratore autonomo è libero di decidere come e quando svolgere il suo compito», spiega l’esperta. «Stessa cosa per le call e videocall: una cosa è fissare riunioni di lavoro in determinati giorni, altra è doversi presentare in videoconferenza tutte le mattine alle 9, o essere reperibile in determinati orari fissi. Le sfumature sono migliaia, il confine è sottile, ma è abbastanza chiaro quando la direzione organizzativa è nelle mani di qualcun altro.
Se la prestazione lavorativa è inserita all’interno di una macchina organizzativa più ampia, che vincola il professionista nei modi e nei tempi, un po’ come se fosse inserito in una catena di montaggio, e gli viene detto: “ogni giorno alla stessa ora devi consegnare questo a tizio”, questo è certamente l’indice che qualcosa non è come dovrebbe».

  • Devo chiedere il permesso per prendere dei giorni di vacanza?

Anche le ferie rientrano in questo ragionamento. «Se devo fare una settimana di ferie non devo essere tenuto a mettermi d’accordo con qualcun altro. Lo decido in base alle mie priorità lavorative e non. È chiaro che se sono web designer, ho costruito un sito, e quel sito viene lanciato il 10 di agosto, dovrò finire il lavoro entro quella data ed essere capace di autorganizzarmi con le ferie in base a questo impegno. Di certo, però, non sarà il mio committente a stabilire quando assentarmi, potrà tuttalpiù chiedermi quando ho intenzione di andare in vacanza, per gestire meglio a sua volta la “sua” macchina organizzativa. Oppure potrà chiedermi di consegnare qualche giorno prima o di ritardare di un pochino la partenza, per avere il tempo di riguardare il prodotto e potermi chiedere eventualmente chiarimenti, ma a gestire le ferie sono io, tenendo conto “anche” delle sue esigenze, non sarò tenuto a chiedere il permesso».

  • C’è qualcuno che mi dice che devo essere al lavoro a una certa ora?

Un altro tema “sensibile” è quello della sede, spiega l’avvocata: «Il committente può legittimamente chiedere al free lance la disponibilità a recarsi in sede, certe committenze richiedono un allineamento con altre figure e questo di per sé non è illecito. Penso per esempio a un’agenzia di traduzioni che riceve l’ordine di tradurre un testo informatico, e non avendo internamente qualcuno con una competenza specifica, va alla ricerca di un professionista specializzato in quella materia, e gli chiede di recarsi ogni tanto in agenzia per coordinarsi con la parte grafica. Il professionista può accettare, ma non può essere obbligato a svolgere sempre le sue mansioni in sede in orari predeterminati».

  • Come viene calcolato il mio compenso?

Anche il modo di calcolare il compenso dovuto è molto indicativo. Dice Santilli: «Un libero professionista può certamente stabilire (ed anzi è buona norma darsi un “valore” personale come riferimento per impiegare il proprio tempo da liberi professionisti) che un’ora del proprio lavoro ha un certo valore economico e, ad esempio, redigere un preventivo nel quale stima il lavoro necessario alla realizzazione di un sito web in 100 ore di lavoro e propone un compenso pari ad esempio a 50 euro / ora per un totale a corpo di 1.000,00 euro.
Ben diversa è la situazione in cui uno sviluppatore web si impegna a collaborare con un’agenzia fatturando 50 euro per ogni ora lavorata, fissando un monte orario mensile (o magari settimanale e giornaliero) di ore nelle quali è a disposizione del committente per seguire i lavori che di volta in volta questi decide di assegnargli, ore delle quali il committente terrà nota per poi conteggiare il compenso da pagare esattamente come avviene appunto per un lavoratore dipendente … peggio ancora se poi il committente/datore di lavoro pretende di decidere in quale ore della giornata il professionista dovrà lavorare».

  • C’è qualcuno che fa le mie stesse mansioni con contratto dipendente? 

Altro elemento da considerare è la presenza in azienda di altre persone che svolgono lo stesso lavoro svolto dal freelance, ma come dipendente … E ancora, aggiunge l’esperta: «In genere il freelance “genuino” usa strumenti di lavoro propri (pc, software e strumentazione varia) mentre è tipicamente ai dipendenti che il datore di lavoro fornisce pc e magari anche scrivania e telefono».

  • Il mio committente ha un potere disciplinare su di me?

«Mi è capitato il caso di un venditore freelance a partita Iva, che per ogni errore commesso nei contratti subiva un richiamo, ma l’esercizio del potere disciplinare è tipico del datore di lavoro, non certo del committente, che al limite potrà lamentare che il lavoro consegnato non sia a regola d’arte o conforme agli impegni, ma non potrà mai pretendere il rispetto di un orario di lavoro o altre regole di condotta aziendale». 

Quando il vincolo di subordinazione viene interiorizzato 

Anche il linguaggio è una spia di un rapporto distorto, e andrebbe analizzato: «Se da free lance uso abitualmente espressioni come “prendo le ferie”, “mi serve un permesso per andare a fare una visita” (o se, a fronte del mancato rinnovo di un contratto, trovo spontaneo dire “mi hanno licenziato”) forse nel modo in cui lavoro e vedo lavorare i miei colleghi ci sono comportamenti, richieste e aspettative del committente che sono quelle che normalmente ci sono nel rapporto di lavoro subordinato».

Come si agisce in questo casi

Non tutte queste condizioni devono coesistere necessariamente, perché si configuri un abuso, spiega Santilli: «A volte basta unire qualche puntino per avere un quadro chiaro. E se succede si va al sindacato da un avvocato per analizzare meglio la situazione e le prove che testimoniano l’esistenza di un rapporto di subordinazione mascherato. Se è così, si può chiedere di vedersi riconoscere quanto non avuto in precedenza », dice l’avvocata. Come fare, invece, se al momento di cercare lavoro l’azienda propone un rapporto del genere? «Non bisognerebbe accettare al ribasso, ma negoziare quanto ci spetta di diritto. Vero è, che quando non si hanno altre alternative non c’è molto da fare. Se si ha l’affitto da pagare a fine mese, e ci si vede costretti ad accettare, bisogna però sapere che si potrà anche agire in seguito, non ci sono scadenze. Chi è esposto non è il lavoratore che cede al ricatto, ma il datore di lavoro, chi si comporta aggirando le regole».

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