Quand’è che la relazione con il denaro diventa tossica?

Molti studi neuropsicologici hanno dimostrato che quando manipoliamo denaro, ma soprattutto quando ci mettiamo nella condizione di guadagnarlo, si attivano le stesse aree del cervello legato al circuito della dopamina. Pertanto, il denaro può essere considerato, allo stesso modo di molte sostanze chimiche, come una droga. Ma come si fa a riconoscere queste dinamiche? E soprattutto, come si fa a disinnescare questi meccanismi tossicomani?

Tempo di lettura: 7 minuti

Annie Francisca
Annie Francisca

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Autrice specializzata sui temi di sostenibilità, esteri e diseguaglianze sociali.

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«Di tutte le droghe sotto l’azzurro immenso cielo ce n’è una che è in assoluto la mia preferita. In quantità sufficiente questa ti rende invincibile, capace di conquistare il mondo e di sventrare i tuoi nemici. E non sto parlando di cocaina. Sto parlando di soldi. I soldi non vi comprano solo una vita migliore, cibo migliore, macchine migliori, i soldi vi rendono anche una persona migliore».

Chiunque abbia visto The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, si ricorderà questa frase pronunciata da Leonardo di Caprio, che interpreta Jordan Belfort, il broker classe 1962 che negli anni Novanta scalò il mondo della finanza cadendo poi in rovina a 36 anni. Nel film il denaro viene presentato come una droga che non solo fornisce piacere e invincibilità ma che è anche in grado di trasformare la personalità. È davvero così? Il denaro può funzionare come una droga?

Cosa dicono le neuroscienze 

Il corpo striato è un’area al centro del cervello in cui si trova il nucleo accumbens: una regione dove opera la dopamina, un neurotrasmettitore, in passato chiamato l’ormone del piacere, che viene rilasciato quando il cervello si aspetta una ricompensa. Facciamo un esempio: nel momento in cui sentiamo l’odore di un cibo appena sfornato, il nostro cervello inizia a produrre dopamina, in quanto si aspetta che quell’odore si trasformi in sapore. Nel momento in cui si consuma quel pasto, la dopamina altro non fa che rafforzare il desiderio. È una sorta di ciclo: desiderio, soddisfazione e rinforzo.

Quando si tratta di denaro avviene esattamente la stessa cosa: «Molti studi neuropsicologici hanno dimostrato che quando manipoliamo denaro, ma soprattutto quando ci mettiamo nella condizione di guadagnarlo, si attivano le stesse aree del cervello legato al circuito della dopamina», spiega Edoardo Lozza, professore Ordinario presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica. Esistono poi, due tipi di rinforzo: quello fisso e quello variabile. Quello fisso implica che, nel momento in cui tu fai qualcosa, automaticamente ottieni un’altra cosa che desideri. «Quello variabile invece, – spiega Lozza – possiamo paragonarlo alle slot machine: tu tiri la leva, ma non sai cosa succede. A volte arriva il rinforzo, a volte no. E questo è il gancio più potente, a livello dopaminergico, perché tu non sei sicuro della ricompensa. Perciò, tutte le situazioni in cui si può guadagnare qualcosa di desiderato, ma non si è sicuri al 100%, sono quelle che più ci fanno entrare nel circuito dopaminergico, rafforzando il desiderio che si ha in partenza».

Pertanto, possiamo rispondere che sì, il denaro rappresenta una droga. «Si tratta probabilmente di una droga cognitiva, i cui effetti sono tuttavia evidenti e simili a quelli delle droghe chimiche – continua Lozza. – Ma è importante utilizzare la metafora della droga, perché mentre le neuroscienze hanno confermato che questi meccanismi accadono, per gli economisti il denaro continua a essere uno strumento neutrale, fine a se stesso, che non dovrebbe innescare questi fenomeni».

Cosa dice la psicologia

Al di là delle neuroscienze, anche il rapporto tra soldi e status sociale è in grado di instaurare una relazione tossica con il denaro. «Viviamo in una società che mette al centro il denaro e che pensa che l’essere umano ricco sia più felice; e questo ci induce a un continuo confronto su quanto possediamo e, di riflesso, su quanti soldi abbiamo sul conto in banca. Quindi sicuramente c’è anche tutto questo meccanismo che si innesca nel renderlo tossico».

È una questione di giusta quantità

Gregory Bateson afferma che qualsiasi cosa per gli essere umani ha una giusta gradazione, che si tratti di regimi alimentari, divertimenti, sostanze o così via: se ce n’è poca, soffriamo, se ce n’è troppa, diventa tossica. Prendiamo per esempio il calcio: vi è una quantità ottimale di calcio di cui un dato organismo può avere bisogno nella sua dieta; al di sotto di essa, l’organismo ne soffre, al di sopra, però, diventa tossica. E lo stesso succede con il denaro, il quale però ha una caratteristica che lo rende diverso da tutto il resto, e cioè che è infinito. «L’idea che esista una quantità o una misura ottimale di tutto ciò di cui abbiamo bisogno, per evitare derive tossiche è certamente applicabile a diversi contesti, dal numero di ore passate davanti alla televisione prima di esser teledipendenti al quantitativo di paia di scarpe che si compra prima di esser considerati compratori compulsivi, eppure il denaro è un oggetto culturale che possiede caratteristiche uniche che lo legano al bisogno di onnipotenza», appunto perché la quantità che se ne può guadagnare è infinita, scrive Lozza nel suo libro Psicologia del denaro: un approccio storico-genetico

Possiamo accumulare quanto denaro vogliamo, senza avere la sensazione che esso stia divenendo tossico. Eppure già intorno alla metà degli anni ’70 l’economista Richard Easterlin dimostrò che la felicità aumenta all’aumentare della ricchezza, ma solo fino a un certo punto. Arriva una soglia in cui, all’aumentare della ricchezza, la felicità invece di aumentare, diminuisce. Lui arrivò alla definizione di questo paradosso osservando che nei Paesi in cui il Pil pro-capite è più elevato, più elevata è anche la percentuale di cittadini che si definisce “abbastanza” o “molto” felice. Ma che quando il reddito cresce oltre una certa soglia, la correlazione tra Pil e felicità tende a svanire. 

Al nostro Festival di Benessere Finanziario a Roma, la scrittrice Teresa Ciabatti ci ha raccontato che per lei «perdere la ricchezza, è stata la salvezza». Figlia un medico chirurgo, Teresa cresce a Orbetello in una villa con piscina per poi trasferirsi a Roma, durante l’adolescenza. La perdita della piscina, verso i 14 anni, rappresenta per lei inizialmente una perdita di identità: «I miei amici romani venivano da me solo perché c’era la piscina. Nel momento in cui nella vita reale ho perso la piscina nessuno più mi ha cercata. E per me è stata una fortuna perché a quel punto ho dovuto cercarmi un’identità vera. Tante volte penso che se non avessi perso niente, probabilmente non sarei diventata una scrittrice e non avrei avuto tutta la possibilità dell’immaginazione. Perché se tu hai tutto, pensa quanto è ridotto il campo della possibilità».

Diverse ricerche, infatti, mostrano come in realtà la ricchezza sia in grado di generare molto stress. «Intanto perché si ha più paura di perdere ciò che si ha – spiega Elena Carbone, psicoterapeuta che si occupa anche di psicologia finanziaria – in secondo luogo perché rende più insicuri rispetto alle persone che ci circondano, perché chi ha molto convive spesso con la paura che amici e partner stiano con lui per trarre vantaggio dalla sua situazione economica. L’equazione è semplice: maggiore è lo stress, minore è la felicità».

Ma allora, come si fa a disinnescare questo meccanismo per cui il denaro può diventare tossico?

«Per le dipendenze più gravi bisognerebbe andare ad intervenire proprio sul circuito dopaminergico. La psichiatra e autrice Anna Lembke, nel suo saggio Dopamine Nation, mostra come la ricerca del piacere sia in grado di portare al dolore e cosa si può fare a riguardo per tenere sotto controllo la dopamina. Per le persone comuni invece, – suggerisce Lozza – probabilmente il modo migliore è riuscire a vedere il denaro come uno strumento, e non come un fine che deve aumentare di per sé sempre di più». In termini di educazione finanziaria, si tratta di un’attenta pianificazione rispetto ai propri desideri.

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