Ho cercato di educare i miei figli anche tramite i soldi

Luca Foresti, classe 1973, è un imprenditore, magari non lo è sempre tecnicamente, ma la sua bussola interiore è lì che punta. Attraverso il suo percorso di vita, ha compreso che la ricchezza non si limita al denaro in banca, ma alla possibilità che hai di produrre reddito in una vita intera. E questo dipende dalle conoscenze, dalle capacità, dalle relazioni…

Tempo di lettura: 11 minuti

Luca Foresti

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«La ricchezza economica è l’aspettativa di reddito lungo l’arco di tutta la tua vita mentre la ricchezza finanziaria è letteralmente quanti soldi hai nel conto corrente. Quindi, nel momento in cui tu credi di essere ricco economicamente, se la tua situazione finanziaria non è disastrosa e non ti impedisce di avere una vita dignitosa, non è un problema. E così è stato per noi: fare l’imprenditore voleva dire rischiare, e sapevamo che tra i rischi c’era anche il fatto di perderci dei soldi».

Luca Foresti è un imprenditore, magari non lo è sempre tecnicamente in ogni momento della sua vita, ma la bussola interiore è lì che punta il suo ago. E la profonda incertezza connaturata a questa attività non lo destabilizza. Non da quando ha fatto sua la differenza tra la ricchezza economica, che lui ha capito di possedere fin da ragazzo, e la ricchezza finanziaria.

Un’infanzia umile

Luca, classe 1973, è originario di Bologna: suo padre faceva il camionista mentre sua madre aveva un piccolo negozio di scarpe. Di ricchezza, neppure l’ombra.

«Non erano dei dipendenti, erano dei piccolissimi imprenditori. In Italia, però, c’è una massa di piccoli imprenditori che sono messi peggio dei dipendenti e fanno più fatica, e molto spesso capita che si indebitino pure. Ecco, questo era un po’ il clima che si respirava a casa mia. Bisognava farcela e arrivare a fine mese».

Come spesso accade in queste famiglie,  non c’era pianificazione di lungo periodo, né educazione finanziaria.

«Era impossibile risparmiare perché, come ben sai, sotto a una certa redditività il risparmio è un miraggio. Ci sono genitori che hanno la capacità di passare un’educazione, ci pensano, sanno come farlo e così via. E poi ci sono dei genitori che vivono, sopravvivono e cercano di fare il meglio che possono date le loro risorse intellettuali e culturali».

Fin da ragazzino, Luca capisce che per soddisfare qualunque desiderio, deve guadagnarsi i propri soldi da solo. Così 16 anni trova un lavoretto come operaio in una fabbrica.

«Guadagnavo relativamente poco, qualcosa come 3.500 lire all’ora. A quel punto mi sono licenziato dopo 24 ore di lavoro e sono andato a raccogliere patate. La raccolta delle patate invece mi faceva guadagnare tre volte tanto ed era un ambiente che mi piaceva già di più».

In quel periodo, inizia a frequentare un corso di memoria e lettura rapida, e il suo maestro gli chiede se vuole iniziare ad insegnare.

«Ho fatto un percorso di formazione di qualche mese in cui ho cominciato a insegnare prima dieci minuti, poi mezz’ora, poi due ore… finché il professore non mi ha portato a gestire completamente un weekend intero di corso. Così, per un po’ di anni ho fatto un weekend sì e uno no in giro per l’Italia a insegnare. Era buffo perché io avevo 16 anni ed ero vestito in giacca e cravatta e dovevo insegnare a gente di 30, 40 o 50 anni».

Luca nel frattempo frequenta l’Istituto Tecnico Statale e si appassiona a una disciplina che guiderà le sue scelte negli anni successivi.

«Ho incontrato un bravissimo professore di fisica e quasi subito mi sono appassionato. Sono andato a vedere chi erano i fisici italiani importanti nella storia, ed era quasi tutta gente che aveva fatto la Normale di Pisa. Così, a 14 anni ho deciso che sarei voluto andare anche io lì a studiare, e alla fine, ce l’ho fatta. Questo è stato un fenomeno di determinazione guidato da una passione».

Gli anni della ricchezza

Luca entra alla Normale di Pisa e per lui, in quel momento, si apre un mondo di possibilità. In Università riceve un piccolo stipendio mensile ma soprattutto ha accesso a libri, film, dischi.

«In quel momento, non facevo grandi vacanze e non avevo chissà quali spese. Non mi interessavano i vestiti, i gioielli o il lusso, perché avevo tutto quello che mi serviva all’interno di quel piccolo ecosistema».

«Quindi sono stati anni in cui ero finanziariamente povero, perché non avevo un conto corrente che si riempiva, ma ero ricchissimo dal punto di vista della qualità della vita. Sono gli anni in cui ho cominciato a capire che la vera scarsità è il tempo: perché erano molte più le cose belle che potevo fare che il tempo a disposizione per farle».

Dopo la laurea, Luca fa un dottorato in Matematica Finanziaria e subito dopo, inizia lavorare. Si trasferisce in Germania, prima a per seguire la sua attuale moglie che all’epoca lavorava all’Agenzia Spaziale Europea, e poi a Francoforte, per uno scambio con l’Università. I suoi primi passi nel mondo del lavoro sono mossi da una forte sete di conoscenza.

«Il mio bias fondamentale, quando sono entrato nel mondo del lavoro, è stato quello di fare cose che mi piacessero e che mi facessero crescere il più velocemente possibile. Ero abbastanza poco interessato ai soldi, che è tra l’altro quello che io suggerisco oggi alla gran parte dei ragazzi che mi chiedono cosa fare: non guardare i soldi all’inizio, poi ci guardi. Però all’inizio, il tema fondamentale dev’essere la curva di apprendimento».

A Francoforte, Luca fa anche uno stage di sei mesi in una banca, dove però, si rende conto che, quel tipo di lavoro, è troppo lontano da lui.

«Gli obiettivi che ci si poneva in questo lavoro erano fondamentalmente fare soldi. E nel momento in cui hai 28 anni e hai appena iniziato a lavorare, tu pensi che il tuo lavoro debba servire a migliorare il mondo. Poi, è ovvio che uno si può far corrompere dai soldi, perché il denaro, spesso, porta le persone a fare cose che non gli piacciono. Ma io in quel momento avevo ancora lo zaino abbastanza leggero, quindi ho scelto di non seguire i soldi».

E così Luca decide di lavorare per un’azienda tedesca che costruisce banche di microfinanza in paesi in via di sviluppo e si trasferisce in Kosovo, a Pristina. A 29 anni è il vicedirettore di una di queste banche.

«È una roba buffa, interessante, che non mi sarebbe mai capitata in Italia. Eppure, in quel contesto, non c’era così tanta gente che, una volta laureata, fosse disposta a trasferirsi a Pristina. Per me invece era una figata. Poi, anche lì, mi pagavano più di quanto avessi necessità per vivere, e non è che l’aspetto economico mi interessasse molto».

Il momento del fallimento

Dopo l’esperienza in Kosovo, Luca capisce che vuole fare un passo in più verso la complessità: diventare imprenditore. E così lui e sua moglie tornano in Italia e decidono di aprire una start-up.

«Si chiamava Econoetica e facevamo guide multimediali per telefoni cellulari, solo che l’abbiamo fondata nel 2005 e nel 2007 è uscito iPhone, che nel giro di sei mesi ha cambiato completamente l’utilizzo che le persone facevano dei telefoni cellulari rispetto a internet e quindi tutta la tecnologia che noi avevamo sviluppato l’abbiamo presa e buttata nel cesso. E lì, è iniziato un periodo molto duro, perché la start-up non è andata bene e da una situazione in cui eravamo economicamente ok, siamo arrivati a una situazione di debiti, difficoltà e quant’altro».

«Ma è stata, anche quella, un pezzo di università, perché ho colto un insegnamento molto importante anche da quella esperienza, e cioè che mai, mai, mai, si devono fare start-up a debito. Le start-up si fanno a capitale di investimento: se non sei in grado di convincere qualcuno a metterci i soldi, non devi fare la start-up e fai altro nella vita».

A quel punto lo zaino che hanno in spalle è più pesante, perché le figlie sono diventate due. Luca si mette a fare il consulente per tirare su i conti familiari e poi diventa amministratore delegato del Sant’Agostino di Milano.

«Dal punto di vista morale è stata una sconfitta. Poi, però, per un mix di fortuna e bravura, il Sant’Agostino è diventato di fatto una start-up, e da amministratore delegato sono diventato piccolo socio. Non sono stato il founder, però, ad un certo punto, è stato abbastanza chiaro che il Sant’Agostino fosse diventato un po’ una mia creazione. A quel punto, ho riiniziato a sentirmi un po’ di più imprenditore e, ad oggi, sono tornato a fare investimenti da imprenditore standard».

La ricchezza economica

Anche nel momento difficile dell’indebitamente, Luca mantiene un profilo di rischio molto elevato, che nasce dalla consapevolezza mai sopita della sua ricchezza economica.

«L’idea di base è: prenditi una marea di piccoli rischi non distruttivi e facendo così mediamente le cose andranno bene. Non sai a priori perché, ma se mantieni un approccio che guarda al lungo periodo, le cose saranno positive».

In questi anni di montagne russe e di continui cambiamenti, le conversazioni finanziarie non avvengono mai in stanze chiuse ai loro tre figli.

«Mi ha sempre stupito che molti genitori abbiano grande pudore a parlare di soldi con i figli, perché i soldi possono educare o possono maleducare. E quindi noi fin da subito abbiamo cercato di capire in che modo potevamo educare i nostri figli anche tramite i soldi. Tra l’altro nella prima parte della nostra vita familiare eravamo finanziariamente poveri mentre nella seconda parte eravamo finanziariamente ricchi. Ed in entrambe queste condizioni ci sono molti rischi ed opportunità a livello educativo».

E così Luca e sua moglie sviluppano sul campo un metodo di educazione finanziaria, che oggi al terzo figlio appare come codificato ma che è stato disegnato man mano, sulla base dei comportamenti osservati nelle figlie maggiori. Il metodo funziona così: da quando hanno tre anni, Luca e sua moglie danno ai figli una paghetta settimanale di 1 euro, che poi cresce ogni anno che passa.

«Ogni anno mettevamo un’inflazione di un euro, quindi a quattro anni avevano due euro la settimana, a cinque anni tre euro, e così via. E questi soldi che loro avevano erano gli unici soldi con cui potevano comprarsi le cose che non erano fondamentali, quindi il gelato, il giochino, le figurine. Tutte le cose che i bambini solitamente vogliono se le dovevano pagare con i loro soldi».

Questo meccanismo li responsabilizza molto.

«Il primo effetto di questa scelta è stato che io non ho mai subito una scenata di uno dei miei figli in un negozio perché lui o lei voleva comprare qualcosa e io non gli davo i soldi. La seconda cosa è che io non entravo più nelle loro decisioni di come spendere quei soldi. Erano autonomi o ovviamente, essendo bambini, facevano di tutto, commettevano errori, e nel momento in cui magari finivano i soldi e si rendevano conto che non potevano permettersi certe cose, iniziavano a dirsi dei no».

Verso i 12 anni Luca e sua moglie iniziano a inserire il meccanismo secondo cui per ogni euro che i figli guadagnano, loro gliene danno altri due.

«Questo perché a 12 anni lavorare è difficile, però un po’ sulla spinta anche di questa possibilità, soprattutto le figlie femmine hanno iniziato a trovare dei lavoretti, come i truccabimbi alle feste o le babysitter. Erano tutte condizioni nelle quali loro potevano cominciare a provare che cosa volesse dire lavorare. E cioè, dedicare del tempo agli e ottenere dei soldi in cambio».

Questa cosa la portano avanti tra i 12 e i 14 anni, poi dopo viene dimezzato il premio. Quindi per ogni euro guadagnato, un euro viene dato dai genitori. Infine il premio viene del tutto azzerato. A 18 anni il meccanismo si interrompe. La teoria sarebbe che vadano fuori casa e si guadagnino da soli il necessario a vivere.

«Dopodiché il mondo reale è fatto in modo che a 18 anni stai ancora facendo le superiori e quindi è giusto che da genitore li aiuti. Però, d’altra parte, se vuoi fare l’Università o vuoi fare altre cose, è bene che mi prepari un business plan, me lo presenti e mi convinci ad investire su di te. Le due figlie grandi hanno 18 anni adesso e a breve mi presenteranno un business plan dell’anno in cui mi fanno vedere tutti i costi che dovranno sostenere durante l’anno. Come famiglia, noi sosterremo tutti i costi vivi, quindi l’Università, ecc…, mentre invece i divertimenti e quant’altro se li dovranno pagare loro».

«In questo modo, si è venuto a generare un meccanismo molto efficace di educazione finanziaria».

Il risultato più importante di questo metodo è forse il più inatteso.

«Ciò che è venuto a verificarsi è che non sono attaccati ai soldi, e cioè per loro i soldi sono un mezzo per fare le cose e non un fine. Inoltre, hanno sviluppato un grande orgoglio nel guadagnarsi i propri soldi».

Fa parte di questa educazione il fatto che si parli liberamente di soldi e che i figli vengano coinvolti nelle decisioni familiari, e anche finanziarie.

«Noi abbiamo scritto una costituzione familiare, e secondo uno degli articoli, si diventa maggiorenni a sette anni. Diventare maggiorenni vuol dire che si hanno esattamente gli stessi diritti di voto degli altri. Quindi, quando abbiamo comprato casa, gli abbiamo chiesto se gli piaceva, ecc…».

«Però, ecco, dev’essere sempre una partecipazione in cui hanno qualcosa da perdere, che li responsabilizza, in cui le scelte che si fanno incidono anche sulla loro vita. Libertà significa che le cose possono anche andar male e se le cose vanno male devi subire le conseguenze perché se no, non è libertà».

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