Bombardata d’amore, ho lasciato andare la mia autonomia

Giovanna Schittino ha 40 anni ed è una psicoterapeuta siciliana, che durante la sua vita ha affrontato un percorso segnato da violenza economica e manipolazione emotiva. Giorno dopo giorno, e senza quasi averne la percezione, ha vissuto il progressivo annullamento della propria indipendenza professionale, personale ed economica, fino a ritrovarsi intrappolata in una realtà destrutturata. Con forza e consapevolezza, ha ricostruito la sua vita, riscoprendo sé stessa, la propria libertà e una nuova dimensione di serenità, sia professionale che affettiva.

Tempo di lettura: 12 minuti

Giovanna Schittino

Ascolta il podcast della puntata:

«Lui aveva un atteggiamento prima e un atteggiamento dopo. Il prima è stato di love bombing bestiale. Mi ha fatto innamorare, andavamo per concerti, mi diceva: “Ci penso io a te, non ci sono problemi, lascia il lavoro!”. Io ero felicissima, ho detto: “Wow, è un musicista, io sono una creativa, lui mi piace, meglio di così…”. Siamo arrivati a Lecce ed è cambiato tutto in un attimo. E lì è iniziato l’inferno».

La violenza economica è un processo lento, che si costruisce attraverso piccoli atti di controllo psicologico, spesso difficili da riconoscere, perché non vengono percepiti come insidiosi, ma che piano piano, giorno dopo giorno, spingono le donne a rinunciare alla propria indipendenza. A Giovanna Schittino è successo senza che se ne accorgesse. E questa è la storia di come l’ha capito e ne è uscita.  

Un’infanzia semplice

Giovanna ha 40 anni ed è una psicoterapeuta. Proviene da un piccolo paese nelle Basse Madonie, in Sicilia. Suo padre era un agricoltore, mentre la madre, inizialmente, era casalinga.

«Mia madre studiava lingue all’università, era bravissima e voleva fare l’insegnante. A un certo punto però, ha deciso di mollare perché non stava bene e aveva bisogno di tornare in paese. Ha scelto dunque di lasciare gli studi, e di questa scelta successivamente si è un po’ pentita. Nel frattempo sono nata io. Mia madre aveva 23 anni e mio padre 25, e poi dopo 5 anni è arrivato mio fratello. Lei si è dedicata anima e corpo a noi, ma ad un certo punto ha sentito la necessità di fare altro».

Ed è così che, d’accordo col marito, apre un negozio di abbigliamento, che porterà avanti per tantissimi anni, e sarà la sua occasione di realizzarsi. 

«Seppur lei ci abbia sempre detto di esser stata felice di aver fatto la mamma a tempo pieno, quando poi ha aperto il negozio eravamo tutti più contenti che lei stesse portando avanti qualcosa di suo». 

Giovanna vive una infanzia e un’adolescenza da favola nel suo paese, in profondo contatto con ciò che è in grado davvero di renderla felice.

«Mi bastava veramente molto poco. Quando mi dicevano: “No, il motorino quest’anno non è possibile, o il telefonino l’anno prossimo”, io attendevo e basta. Non facevo capricci».

Una volta terminato il liceo, però, si radica in Giovanna il desiderio di qualcosa di diverso.

«Quello che pensavo era che non avrei mai voluto trovarmi in quella situazione di insoddisfazione in cui si era trovata mia madre. Io mi ero detta che volevo il meglio per me, che volevo studiare e che me ne volevo andare via da casa perché il paese mi stava stretto». 

E così si trasferisce a Palermo per studiare Psicologia. I suoi genitori le pagano le rette universitarie e le spese. Giovanna è così riconoscente per quello sforzo, che cerca di farsi bastare tutto ciò che arriva.   

«Io spendevo pochissimi soldi perché i miei genitori mi davano 50 euro alla settimana. Quindi, con quei soldi io dovevo farmi la spesa, pagarmi i materiali per l’università, i biglietti per l’autobus… Pianificavo tutto nel minimo dettaglio. C’era la settimana in cui potevo mangiare meglio e la settimana in cui dovevo mangiare peggio. I legumi e le verdure me li portavo dal paese: andavo il fine settimana a casa e mia madre mi dava tutti i prodotti della campagna di mio padre e io cercavo di farmeli bastare per tutta la settimana». 

Il momento dell’emancipazione

Quando finisce l’università e inizia la scuola di specializzazione, Giovanna sente il bisogno di emanciparsi economicamente dai suoi, così inizia a lavorare.

«Ho fatto di tutto: dalla babysitter, alle lezioni private, alla cameriera. Ricordo il giorno in cui ho deciso di fare la cameriera per la prima volta. Sentivo la necessità di capire cosa significasse lavorare e stancarsi fisicamente fino veramente allo sfinimento, perché era quello che aveva sempre fatto mio padre, e poi anche mia madre».

«Io, in quel momento, avevo bisogno di sperimentare la stanchezza fisica, il lavoro, perché questo mi dava l’opportunità di assumermi delle responsabilità in maniera molto più determinata. Diventare psicoterapeuta è stata un’impresa veramente dura e per me era davvero importante».

Man mano che procede con gli studi Giovanna inizia a lavorare anche nel terzo settore. Ma i soldi che guadagna, sono davvero pochi»ì. 

«Ho lavorato in ospedale con i malati oncologici, nelle comunità e nelle case di cura per soggetti schizofrenici. Ho lavorato in un sacco di ambiti fino ad arrivare anche alla violenza di genere. Ed è un settore che sottopaga enormemente.  La cosa bizzarra è che c’è la convinzione che se lavori nel terzo settore, quasi non devi avere la pretesa di guadagnare troppo. Il concetto è: “Questa è una missione, che vuoi di più?”».

Il vero momento dell’indipendenza economica arriva per Giovanna finita la scuola di specializzazione, quando fa un’applicazione per Save The Children e ottiene il posto di psychosocial officer. Si trattava di riconoscere i segni di maltrattamento nei minori stranieri non accompagnati e in più fare formazione sulle tecniche di primo soccorso psicologico a tutti gli operatori che si trovavano a fare gli sbarchi.

«Io ricordo la telefonata dalle risorse umane che mi dice: “Allora Giovanna, noi ti abbiamo preso però ti abbiamo selezionata per andare a Lampedusa”. E io ricordo la mia grande felicità. Nell’arco di due giorni ho smontato la casa, ho fatto le valigie e sono partita per Lampedusa».

«Da lì ho intrapreso quello che era il mio grande sogno. Ero felice perché per la prima volta nella mia vita avevo una casa che era tutta mia e desideravo arredarla io con le mie cose. Desideravo avere i miei spazi, la mia serenità».

Per la prima volta Giovanna ha anche un buon contratto e un buono stipendio. In quel momento, però, qualcosa cambia, senza che faccia in tempo a rendersene conto. Giovanna ha appena terminato una relazione di quattro anni. E un altro uomo, scoperto che era tornata single, si fa vivo e va a trovarla a Lampedusa. 

«Lui è un musicista. Io ero fan del suo gruppo, motivo per cui qualche anno prima l’avevo conosciuto e di tanto in tanto mi scriveva. Gli piacevo ma io non ero minimamente interessata a lui; però mi lusingava il fatto che un musicista che io seguivo da tanto tempo, mi facesse la corte. Quindi lui viene a trovarmi e da quel momento non se n’è più andato. Nel frattempo è nata questa storia, all’inizio d’amore, e lì, io inizio a non fare più le scelte che invece avrei dovuto fare». 

La prima di queste scelte è spostarsi ad Agrigento, ma non si tratta solo del luogo in cui vivere.

«Sentivo che lui iniziava a limitarmi in tutte le cose che io desideravo fare, soprattutto nella possibilità di stare con i miei colleghi, di fare esperienze in quel lavoro magnifico».

I primi campanelli d’allarme

Con la consapevolezza del poi, Giovanna riconosce in quel momento il primo campanello d’allarme che avrebbe dovuto cogliere.

«Perché lui a un certo punto mi dice: “Io devo ritornare a Lecce, perché ho troppo lavoro da fare”, lui viveva a Lecce, così io ho detto: “Vabbè perfetto, tu torni a Lecce, io rimango ad Agrigento, io sono felice perché continuo a lavorare, tu continui a fare il tuo lavoro e di tanto in tanto, tu vieni ad Agrigento e io a Lecce”. Non l’avessi mai detto: in tono arrabbiato e svalutante mi disse che ero pazza e che le relazioni non funzionano così».

«Considera che lui ha 15 anni in più di me ed è una persona estremamente carismatica, molto decisa, cosa che non ero io a quel tempo. Quindi io ho cominciato a credere che quello che lui mi diceva fosse vero e che fossi io il problema. Ricordo questi pianti infiniti perché non riuscivo a capire come facesse ad essere sbagliata una cosa così». 

E così Giovanna compie un gesto che ancora oggi fatica a spiegarsi. 

«Io ho mollato il lavoro della mia vita. Quando l’ho fatto, per un mese non ho dormito la notte. Avevo gli incubi perché sognavo il dissenso di mio padre, sentivo che avevo deluso i miei genitori perché quando avevo avuto l’incarico ricordo la loro felicità nel sentire che io avrei avuto uno stipendio. Ed era anche uno stipendio di 2.200 euro».

Quando Giovanna si trasferisce con lui a Lecce inizia l’inferno. Vanno a vivere in campagna, lei non guida e non ha un lavoro. 

«Mi sentivo intrappolata perché a quel punto lui ha iniziato a partire per i concerti e mi lasciava a casa. Inoltre, mi faceva pesare il fatto di non contribuire economicamente. Ricordo il momento in cui mi guardò e mi disse: “Beh, puoi sempre andare a fare la cameriera”». 

«E io ricordo il senso di mortificazione perché pensavo: “Ma come? Io ho fatto la cameriera per arrivare dove sono arrivata, mi sono guadagnata quel posto di lavoro perché mai nessuno mi ha aiutato, tu hai raggiunto il tuo obiettivo, perché sei riuscito a portarmi via con te, e ora mi dici semplicemente di andare a fare la cameriera”. Da premettere che lui mi aveva detto: “Io col mio lavoro guadagno un sacco, figurati se abbiamo bisogno del lavoro in Save The Children”».

Dopo un anno, Giovanna riesce a convincerlo a tornare a Palermo. E qui si sposano. 

«Mi sentivo talmente in difetto dal punto di vista economico che al matrimonio c’erano 400 invitati, di cui 20 miei, perché io non potevo permettermi di pagare di più. Perché lui figurati se pagava per tutti e due. Con tutto quello che significato poi negli anni dover spiegare a tutti quanti perché non li avessi invitati».

Il momento del crollo

A Palermo il problema si ripropone: lui deve andare in giro per concerti, ma questa volta propone a Giovanna di iniziare a lavorare per lui e di gestire i social. Se non fosse che per lui quel lavoro era gratuito.

«Perché io ero la sua compagna quindi mica potevo pensare di avere diritto a uno stipendio. In tutto questo c’era la sua ex compagna che lavorava con lui e gestiva tutti i suoi soldi. Motivo per cui se io decidevo di comprare un divano per casa nostra, dovevo chiamare la sua ex compagna chiedendole i soldi, perché lui non mi dava le sue carte io non avevo accesso ai suoi conti. Al contempo però, mi chiedeva sempre di contribuire alle spese di casa».

Pian piano la situazione degenera. 

«Lui mi rimproverava davanti agli altri e si prendeva gioco di me in ogni occasione. Mi umiliava costantemente in qualsiasi maniera possibile ed inimmaginabile, poi però mi dava sempre il contentino, e quindi partivamo ed andavamo ad un concerto e lui mi diceva cose tipo: “Io ti amo tantissimo, è solo che ero arrabbiato”».

«Quindi giorno dopo giorno, destrutturava tutte le mie convinzioni fino a farmi dubitare proprio della realtà. Una delle sue frasi cult era: “Tu stai male, devo parlare con i tuoi perché tu non te ne rendi conto ma stai male”. E io lì ricordo i miei attacchi di panico, dove piangevo fino quasi a svenire. Mi ero convinta davvero di stare male». 

Giovanna non chiede aiuto alla sua famiglia.

«Non volevo ammettere di aver fallito e di aver sbagliato tutto e quindi facevo finta di essere felice anche con me stessa e ho continuato ad andare avanti».

Il momento della consapevolezza

Senonché suo fratello, un giorno, aiutandoli a traslocare alcune cose che erano rimaste a Lecce si accorge di come lui la tratta.

«Mi ha detto che se avessi continuato a rimanere con lui, lui non mi avrebbe più parlato. A quel punto ho capito che se lui stava reagendo in questo modo, allora c’era qualcosa di cui io non mi accorgevo».

E lì inizia un calvario che dura mesi, finché Giovanna se ne va di casa, e per un periodo vive da una sua amica.

«Quando me ne sono andata lui mi ha detto che si ammazzava. Chiaramente non si è ammazzato, per fortuna, perché gli auguro tutto il bene del mondo. Intanto aspettava suo figlio. A me diceva “se mi lasci mi ammazzo”, ma nel frattempo andava a trovare la sua attuale moglie».

Giovanna a quel punto si ritrova senza nulla e ricomincia da zero. È nel pieno della pandemia, c’è un’emergenza salute mentale in Italia e lei inizia a fare terapia online. Non solo. Lancia un progetto social, WonderTherapist, in cui parla di diritti e fa lotta femminista. 

«Lì inizio a crescere esponenzialmente, quindi il mio progetto comincia ad avere una certa consistenza sui social. Riesco a sfondare facendo dirette, e da lì i pazienti iniziano ad arrivare, la gente inizia a conoscermi. Fino a quando, a un certo punto, ho capito che quel progetto non mi apparteneva più, così ho cancellato tutti i follower. WonderTherapist esiste ancora, chi mi conosce lo sa e magari un giorno ripartirà, però da quel momento non mi sono più fermata lavorativamente».

Oggi Giovanna ha la sua casa, il suo studio, la sua gatta, un nuovo compagno…

«Che è una persona straordinaria. Noi siamo consapevoli che ognuno di noi ha il proprio lavoro, quindi io ho le mie entrate, lui ha le sue, ma costruiamo insieme, quindi sappiamo quando occuparci insieme di un progetto comune. Perseguiamo gli stessi intenti però con la nostra libertà personale ed economica, assolutamente».

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