Ero l’avvocatessa dei farabutti. Oggi difendo le vittime di violenza. In gratuito patrocinio
Il gratuito patrocinio è una misura prevista dalla legge italiana che, dal 2001, permette alle persone con un reddito basso di essere assistite da un avvocato senza dover sostenere alcun costo, poiché le parcelle vengono coperte dallo Stato. A partire dal 2011, questa legge è stata estesa a tutte le donne vittime di violenza, indipendentemente dal loro reddito. Dietro questa legge ci sono avvocati e avvocatesse che, oltre a rinunciare a guadagni elevati, spesso devono aspettare anni prima di ricevere il pagamento da parte dello Stato. Alessia è uno degli esempi di queste professioniste.
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«Io ho presentato Isee di 120.000 euro e ho difeso donne che guadagnano quattro volte più di me, ma ho sempre rivendicato con orgoglio il diritto di dire loro: “Signora, sappia che da lei non voglio un centesimo, perché questa è la legge”. Molte donne non solo ignorano l’esistenza del gratuito patrocinio, ma spesso vengono persino dissuase dall’esercitare questo loro diritto fondamentale».
Il gratuito patrocinio è un istituto previsto dalla legge italiana che, dal 2001, consente alle persone con un reddito basso di essere assistite da un avvocato senza dover pagare le sue parcelle, poiché queste sono a carico dello Stato. Dal 2011, questa legge è stata estesa a tutte le donne vittime di violenza, senza alcuna distinzione di reddito.
«La difesa della vittima, però, è fortemente penalizzata. Passiamo ore in aula ad ascoltare testimoni, ma alla fine il nostro lavoro viene misurato secondo criteri rigidi: hai fatto tanto o poco, la tariffa del gratuito patrocinio prevede questa cifra e basta. E non è neanche giusto così».
Dietro questa legge, infatti, ci sono avvocati e avvocatesse che, non solo rinunciano a stipendi stellari, ma a volte aspettano anni per essere pagati dallo stato. Alessia è una di loro.
L’importanza dell’indipendenza economica
Alessia Sorgato ha 57 anni e abita a Milano. Proviene da una famiglia alto-borghese in cui lavorava solo il padre, che esercitava la professione di notaio.
«Il monoreddito era stata una scelta: mia madre ha smesso di lavorare quando sono nata. Nella mia famiglia, per le donne parlare di soldi era considerato poco chic. E questa è un’idea che io ho respirato per anni, e di cui solo di recente mi sono davvero liberata. Per troppo tempo si è pensato che le signore bene non dovessero parlare di denaro, ma invece sì, devono parlarne. E con grande orgoglio».
Da ragazzina, pur non avendo la necessità di guadagnare per soddisfare i suoi bisogni, Alessia lavora. E questo perché assimila, con il latte materno, l’importanza dell’indipendenza economica.
«Lei l’ha sempre detto, fin da quando eravamo piccole: “L’importante è che tu sia autonoma. Con l’autonomia economica, farai quello che vuoi, andrai dove vuoi e non dovrai mai dipendere da nessuno” — cosa che, probabilmente, lei stessa aveva dovuto fare. Così, a 14 anni ho iniziato a dare ripetizioni, le prime proprio a mia sorella. La cosa divertente era che mia madre mi pagava 5.000 lire e dava 1.000 lire a lei, per incentivarla. Ma mia sorella è stata solo la prima: ho sempre avuto ragazzi a cui dare ripetizioni e bambini da accudire come babysitter. Si può dire che, già a 14 anni, non dico che potessi fare a meno della paghetta, ma quasi».
I soldi, Alessia, li spende nella sua più grande passione: la danza classica.
«Ho studiato danza classica fino all’anno della laurea, ma purtroppo è una disciplina costosa. Solo tra scarpe, tutù e calze si spendeva un’enormità. Praticamente tutto quello che guadagnavo finiva lì».
Al momento di scegliere l’università, Alessia viene fortemente condizionata a non seguire il suo istinto.
«Io volevo studiare Lettere, non avevo alcuna intenzione di fare Giurisprudenza. Alcuni esami li ho sofferti come un inferno. Ma quando sul mio percorso è arrivato il diritto penale, è stato amore a prima vista. È così che ho capito quale fosse davvero la mia strada. Però, soprattutto nei primi anni, ho faticato parecchio. C’è stato persino un anno—il mio annus horribilis—in cui non mi sono iscritta alla scuola di danza».
Gli anni della sfida intellettuale
Un unico anno in cui si dedica completamente all’università per poi riscriversi a danza, laurearsi ed entrare nel mondo professionale.
«E lì è iniziato il secondo momento di tregenda. Nel 1993, a Milano, io volevo fare diritto penale—una scelta che faceva quasi ridere. Tutti mi guardavano come se fossi impazzita: “Una donna penalista? Ma tuo padre è notaio, devi fare lo stesso mestiere e ereditarne lo studio!”. Anche i cancellieri—e perfino le cancelliere—avevano uno stereotipo radicato: se eri una donna in una cancelleria penale, allora dovevi essere una segretaria. Ancora anni dopo, già da avvocato, entravo alle riunioni e puntualmente qualcuno chiedeva: “Quando arriva l’avvocato?”».
Ma Alessia non si lascia scoraggiare e inizia subito a lavorare in uno studio molto importante, dove resta per cinque anni.
«All’epoca, per me, era una una sfida intellettuale. Non si trattava di dimostrare di essere come loro o più di loro. Si trattava di bucare ogni giorno pareti trasparenti, quelle su cui nessuna, o quasi, aveva ancora lasciato il segno. Le poche avvocatesse che si incontravano si occupavano di separazioni e divorzi o, quando andava bene, erano avvocati dello Stato».
Alessia è brava e fa carriera molto in fretta. Dopo la prima esperienza lavorativa si sposta in un altro studio, altrettanto importante, dove passa altri cinque anni.
«Io mi rendevo conto che quello che mi stavano dando era impagabile, perché io stavo facendo una gavetta strepitosa. Lavoravo in uno studio importante, facevo dei bellissimi processi: Mani Pulite, omicidi… io sono anche andata a Ibiza a recuperare un latitante. E questo studio era talmente grande che aveva due dipartimenti: uno di civile e uno di penale. E a 30 anni io ero il capo del dipartimento penale».
Quella carriera Alessia non l’ha scelta per soldi.
«Non ho mai scelto di fare questo lavoro per finalità di guadagno. È vero che quando io ho cominciato a fare la penalista, a Milano giravano parcelle da mal di testa, però io lavoravo in uno studio, quindi mi riconoscevano solo un mensile».
Alessia però non si è mai sentita sfruttata. Anzi, chiedeva di lavorare sempre di più e quegli anni se li è goduti tantissimo.
«Con pochi soldi in tasca e da single, erano anni spensierati: si rientrava a casa all’una o alle due di notte per poi essere in aula il mattino dopo. Il lunedì era dedicato all’abbonamento al conservatorio, un appuntamento fisso per anni. Il martedì si andava al Teatro Nuovo. Il mercoledì era il giorno dell’aperitivo, nel pieno dell’era degli happy hour, tra Piazza Sant’Eustorgio e Viale Beatrice D’Este. Erano gli anni dei praticanti e dei giovani avvocati, tra lavoro e serate mondane».
E come quando è ragazzina, ha un’ottima gestione del denaro.
«Di ciò che guadagnavo, mettevo da parte il 70%: era una regola ferrea. Il mio ragionamento era semplice: per poterne spendere cinque, dovevo averne almeno sette o otto. Ogni spesa era calcolata con attenzione, sempre con l’obiettivo di garantirmi un paracadute finanziario».
La svolta – forzata – verso la libera professione
Quando cambia nuovamente e approda al terzo studio di avvocati, le cose non vanno come sperato. Conscia delle sue possibilità economiche e di uno stipendio fisso, aveva appena acquistato la sua prima casa, quando, dopo un anno, viene licenziata.
«Ma questo essere cacciata mi ha obbligato a mettermi in proprio. Con il mio solito ottimismo l’ho visto come un calcio nel sedere che mi stava facendo fare una cosa che dovevo fare».
Dal punto di vista economico, però, non è facile come dirlo.
«Mi ero indebitata fino al collo. Anche se il mio appartamento era piccolo, solo 43 metri quadri al quinto piano senza ascensore, e nonostante il mutuo, avevo dovuto far realizzare tutti i mobili su misura a causa degli spioventi, prosciugando i miei risparmi. Per far quadrare i conti, arrivavo a tagliare a metà i collant: li compravo tutti uguali e, quando si smagliava una gamba, li ricomponevo con un’altra ancora integra. In quel periodo, le mie amiche – tuttora meravigliose – evitavano di propormi weekend o serate costose che loro potevano permettersi. Invece, mi invitavano a fare passeggiate. E così, i miei sabati sera erano spesi semplicemente a camminare».
Alessia, con la pressione di un mutuo da pagare, prende in affitto un soppalco sopra uno studio di architettura e inizia a esercitare la libera professione. Qui comincia il secondo tempo della sua vita.
«Immagina la scena: sotto si parlava di piastrelle, mentre sopra io discutevo di furti e droga. Perché quando inizi con le difese d’ufficio, prendi quel che arriva, senza scegliere. Era un periodo folle, ma sono riuscita a uscirne grazie a un consiglio di un amico che un giorno mi ha detto: “Se con i tuoi risparmi riesci a coprire le spese essenziali – cibo e mutuo – allora ogni euro che guadagni, anche se poco, reinvestilo nella tua professione. Usalo per l’affitto dello studio, per i corsi, per i libri.” E allora sapete che ho fatto? Mi sono messa a scrivere».
La passione per la scrittura, che Alessia avrebbe voluto diventasse la sua professione, torna fuori nel momento in cui ha bisogno di mantenersi.
«Nel giro di un anno scrivevo per tre o quattro riviste del Sole 24 Ore, sfornando un articolo a settimana. Pagavano bene, 150 mila lire ad articolo, una cifra niente male. E così, poco alla volta, la notte buia è passata, quella davvero da aurora boreale».
Nel frattempo, Alessia, capitalizzando la sua esperienza e conoscendo bene la legge del gratuito patrocinio, diventa difensore d’ufficio dei peggiori criminali.
«Venivo da una scuola straordinaria: i due studi per cui avevo lavorato mi avevano formato in modo eccezionale. Uno mi lasciava fare, l’altro mi indottrinava, e quel mix si era rivelato incredibilmente solido».
«Così, alla fine, ero diventata davvero l’avvocato dei… farabutti».
Da avvocatessa dei cattivi, a paladina delle vittime
A ciò si aggiungono anche alcuni colpi di fortuna, come quando viene nominata difensore di ufficio di tre americani imputati del rapimento di Abu Omar, l’imam egiziano sequestrato in via Guerzoni dai servizi segreti statunitensi nel 2003.
«Con quell’udienza preliminare mi sono comprata la panda, con il dibattimento ho quasi saldato il mutuo. All’epoca il gratuito patrocinio era un istituto che ti consentiva di guadagnare il giusto».
Intanto, gli articoli che Alessia scrive si trasformano in libri. E un giorno, durante la presentazione di un suo libro sullo stalking, Alessia conosce Nadia Muscialini, una psicologa fondatrice di “Soccorso Rosa”, un centro antiviolenza intraospedaliero di Milano.
«Dopo qualche settimana mi chiama la Muscialini e mi dice: “Perché non ci aiuti? Abbiamo tantissime donne vittime.” Mi metto a ridere. “Vittime? Io? Ma Nadia, stai scherzando? Io difendo i cattivi, mi diverto e guadagno bene.” Ma lei insiste: “Tu sei la persona giusta. Hai fatto una gavetta perfetta, sei una donna ma hai vissuto come un uomo fino ad ora. È esattamente quello di cui abbiamo bisogno.”».
Alessia finisce per passare dall’altra parte. Per la prima volta in tutta la sua carriera, si ritrova a difendere le vittime.
«Nel 1993, quando mi sono laureata, difendere la parte civile – cioè la vittima – era qualcosa che quasi nessuno faceva. E, lo confesso, anche io lo consideravo un mestiere di serie B. “La vittima? Ma dai, c’è già il PM! Dov’è la difficoltà?” Poi, però, quando ho iniziato con Soccorso Rosa a difendere le prime vittime, ho capito subito che quella sarebbe stata la mia strada Perché è infinitamente più difficile. A volte, in aula, mi trovo tutti contro, non solo la difesa. Perché nella mentalità di molti, la vittima dovrebbe solo raccontare cosa le è successo e togliersi di mezzo il prima possibile. Perché, per loro, il processo penale è solo una questione di diritto».
In dieci anni, assieme a Nadia Muscialini, assiste più di 400 donne.
«Dal pronto soccorso arrivavano donne violentate e picchiate, e appena cominciavano a sentirsi un po’ meglio, si scopriva che dietro al pronto soccorso c’era un presidio psicologico. Alcune di loro ci raccontavano che dicevano ai mariti di andare a fare il pap test, ma in realtà si infilavano nel centro antiviolenza, dove venivano supportate e accompagnate nel loro percorso di uscita dalla violenza».
Nel 2011, la convenzione di Istanbul dice agli 84 stati firmatari che le vittime di violenza psicologica, fisica, economica e sessuale vanno difese col gratuito patrocinio indipendentemente dal loro reddito. Una svolta. A quel punto Alessia si prende l’impegno di informare le donne di quel loro diritto.
«Non tutte le mie colleghe fanno lo stesso. Recentemente, mi hanno raccontato di avvocate che difendono le vittime, ma si fanno pagare, e addirittura sconsigliano loro di chiedere il gratuito patrocinio, dicendo che il giudice potrebbe vederla male, questa “pitoccheria”. Hai capito a che punto siamo? Le donne non solo non sanno che esiste il gratuito patrocinio, ma a volte vengono addirittura dissuase da uno dei loro diritti fondamentali».
«E questo cosa comporta? Che, nel caso di maltrattamenti, atti persecutori e violenza sessuale, dal primo momento in cui una donna arriva nel mio studio o tramite i centri antiviolenza e le associazioni, chiedo subito i documenti necessari per la domanda di gratuito patrocinio. E in tutti questi anni, solo due donne mi hanno detto: “Mi posso permettere di pagare l’avvocato, tenga pure questo beneficio per le donne che non possono.”».
Sono lontani, però, i tempi in cui potevi quasi estinguere il mutuo con una difesa in gratuito patrocinio.
«La primissima legge sul gratuito patrocinio, nel 2001, non la considerava quasi nessuno. Poi, pian piano, le persone hanno iniziato a impoverirsi e, dove potevi ottenere 300 euro dallo Stato, la domanda è aumentata. E allora, perché non approfittarne? Ma, man mano che la domanda cresceva, lo Stato ha cominciato a tirare i remi in barca, riducendo sempre di più. Ora i valori sono stati abbassati di un terzo e, inoltre, non sono più i valori massimi, ma i valori minimi. Quindi, se un privato ti paga 300 euro per una parcella, con il gratuito patrocinio ne prendi solo 100».
Il gratuito patrocinio: un sistema inceppato
Ma non è questo il punto che sta a cuore ad Alessia.
«Va benissimo guadagnare meno. A 57 anni, sinceramente, guadagno più o meno quanto guadagnavo a 28, nonostante sia cassazionista, abbia 25 anni di carriera e i cosiddetti “cordoni dorati”. Ma il vero problema è l’impoverimento delle tariffe, che ha portato a questa situazione. Ciò che è veramente scandaloso, però, è che stanno togliendo risorse in modo sistematico. Non sostituiscono i funzionari che vanno in pensione, non cambiano la squadra quando serve, e chi deve far girare le pratiche è sempre di meno. Per esempio, una volta la liquidazione veniva già inserita nella sentenza per la parte civile, così da avere subito l’importo. Ora, invece, il giudice deve scrivere anche un decreto, il che comporta un ulteriore passaggio burocratico. Se pensi a quanto tempo ha a disposizione il giudice, che deve sentire i testimoni, redigere le sentenze e, a volte, ragionare anche in termini di libertà personale, ti rendi conto che la liquidazione arriva sempre sei mesi dopo».
«E, anche quando il giudice, con buona volontà, ti fa il decreto, questo finisce in un imbuto: al Tribunale di Milano ci sono solo due addetti a gestire le pratiche, quando prima erano sei. La situazione è tale che, dopo che il decreto è stato emesso, bisogna aspettare ancora un altro lungo periodo per la notifica, e solo allora la liquidazione diventa definitiva. A quel punto posso finalmente fatturare, e lo Stato mi pagherà, ma con calma».
Questa è una situazione che pesa soprattutto sui giovani avvocati, quasi tutte donne.
«Se sei come me, che ha cominciato a 30 anni, puoi anche permetterti di aspettare due, tre, quattro anni per essere pagata per un processo che hai concluso già da tempo. Nel frattempo, magari stai ancora incassando fatture del 2016 o del 2017, quindi è tutta una ruota che continua a girare. Ma se sei giovane, non puoi permettertelo. E poi, la questione del gratuito patrocinio è una tematica che coinvolge soprattutto le donne, perché le fiduciarie dei centri antiviolenza sono quasi tutte donne».
Ma che cosa spinge Alessia ad andare avanti nonostante tutto?
«La soddisfazione più grande che ho è che molte donne le salviamo fisicamente, anche se non lo faccio da sola, perché il percorso di presa in carico di una vittima di violenza coinvolge sempre almeno tre o quattro persone: la penalista, la civilista che la fa separare, la psicologa e le volontarie. In alcuni casi, le ho letteralmente afferrate per i capelli e le abbiamo fatte uscire da situazioni pericolosissime, con uomini che le tenevano con le mani al collo. Questo tipo di risultati mi ripaga enormemente».
«In secondo luogo, ho una quantità di lavoro che però non mi arriva da uno studio legale che mi passa incarichi o uno stipendio fisso. Proviene dal fatto che una donna, vedendo il mio nome su internet, mi ascolta parlare e decide di venire da me. È una soddisfazione molto personale, anche se poco redditizia. Ma io, in fondo, non ho grandi pretese. Sono ancora quella che vive in una mansarda, non possiedo una macchina, e dal punto di vista personale ho grandi velleità culturali, come gli abbonamenti alla Scala. Per il resto, se posso fare una pizza con gli amici, per me va benissimo. Non mi interessa altro. Non ho figli, ho un compagno da 13 anni, conviviamo e quindi condividiamo le spese».
I genitori di Alessia sono ancora in vita. Mi incuriosisce sapere cosa pensano oggi di questo suo percorso.
«Mia mamma, ancora adesso, ogni volta che può, mi dice che avrei dovuto fare il notaio. Mio papà, invece, mi racconta sempre che in realtà voleva fare il penale, ma non ce l’ha fatta. Pensa che cosa strana! Però è molto fiero di me, di quello che faccio, e quando può, mi aiuta, mi fa dei regalini. Lo fa perché capisce che, a volte, ci sono momenti di difficoltà, quando arrivano le tasse e lo studio richiede di pagare l’affitto».