L’Italia ha costruito la terza riserva aurea più grande al mondo
Nei caveau di Bankitalia giacciono 2.452 tonnellate di oro per un valore di circa 230 miliardi di euro, una quantità che pone il paese dietro solo a Stati Uniti e Germania. Un patrimonio cresciuto soprattutto nel dopoguerra e oggi al centro di dibattiti sul suo utilizzo.
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Sotto il pavimento di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia a Roma, riposano oltre mille tonnellate d’oro in lingotti e monete, custodite in uno dei caveau più sicuri del paese. È solo metà della riserva aurea italiana che, con le sue 2.452 tonnellate complessive, vale oggi circa 230 miliardi di euro. Un patrimonio che posiziona il nostro paese addirittura al terzo posto nella classifica mondiale dei detentori d’oro, dopo Stati Uniti (8.133 tonnellate) e Germania (3.353 tonnellate), nonostante l’Italia sia solo l’ottava economia mondiale per Pil. Questa ricchezza, accumulata principalmente durante il boom economico del dopoguerra grazie ai surplus commerciali convertiti in oro e alla lungimirante politica della Banca d’Italia, rappresenta quasi il 10% del prodotto interno lordo nazionale.
Funzioni e prospettive delle riserve auree
Nell’era delle transazioni digitali e delle criptovalute, potrebbe sembrare anacronistico accumulare metalli preziosi. Eppure Bankitalia garantisce che esistono almeno almeno quattro buone ragioni per farlo. Innanzitutto, rappresentano un’ancora di salvezza durante le tempeste economiche, come dimostrato durante le crisi finanziarie. Inoltre, rafforzano la credibilità monetaria di un paese, un po’ come avere una robusta cassaforte in casa aumenta la sicurezza percepita. Terzo aspetto fondamentale: l’oro può trasformarsi in garanzia concreta per ottenere prestiti internazionali – l’Italia lo sa bene, avendo usato parte delle sue riserve negli anni Settanta come pegno per un prestito dalla Germania che ci salvò dal fallimento. Infine, possedere grandi quantità d’oro aumenta il peso di un paese nei tavoli diplomatici globali.
Ecco allora che il metallo che l’economista John Maynard Keynes definì con disprezzo una “reliquia barbarica”, considerandolo un sistema arcaico e superato per garantire il valore delle valute, sta vivendo una rinnovata centralità tra le banche centrali mondiali. Nel 2024, secondo il World Gold Council, gli istituti centrali hanno acquistato oltre 1.000 tonnellate d’oro per il terzo anno consecutivo. Tra i principali acquirenti ci sono la Polonia (90 tonnellate), seguita da Turchia (75), India (73) e Cina (44). Un vero e proprio “ritorno all’oro” che riflette il desiderio di molti paesi, soprattutto emergenti, di ridurre la dipendenza dal dollaro americano.
Il valore delle nostre riserve
L’Italia, in quanto grande detentrice di riserve auree, non può che trarre beneficio da questa tendenza. Il valore delle riserve italiane, infatti, è schizzato alle stelle a inizio 2025 superando i 2.950 dollari l’oncia. Per dare un’idea concreta: in appena quattro mesi, tra ottobre 2024 e febbraio 2025, il tesoro aureo nazionale ha guadagnato quasi 20 miliardi di euro, passando da circa 200 a 220 miliardi: più del gettito annuale dell’IMU (18,1 miliardi nel 2023).
Questo enorme patrimonio ha periodicamente attirato l’attenzione dei governi in cerca di risorse. Nel 2007, l’esecutivo guidato da Romano Prodi valutò di venderne una parte per alleggerire il debito pubblico, idea poi abbandonata. Più recentemente, negli Stati Uniti, il segretario al Tesoro Scott Bessent ha suggerito di rivalutare contabilmente le riserve auree o venderne una parte per alleviare il debito americano.
La storia dell’oro italiano
La storia del tesoro aureo italiano è un racconto di cadute e risalite. Quando nacque la Banca d’Italia nel 1893, il paese possedeva appena 78 tonnellate d’oro. La seconda guerra mondiale ridusse drasticamente questa riserva: le truppe naziste, guidate dal generale Kappler, asportarono gran parte dell’oro italiano nel settembre 1943, trasferendolo prima a Milano, poi a Fortezza in Alto Adige e infine in Germania. Al termine del conflitto, nei forzieri italiani rimanevano solo 22 tonnellate. Fu allora che iniziò la grande ricostruzione del patrimonio aureo nazionale, parallela al miracolo economico. L’Italia, diventata rapidamente paese esportatore, incassava dollari che venivano in parte convertiti in oro, seguendo la stessa strategia di altre banche centrali europee.
Una figura chiave in questa storia fu Paolo Baffi, direttore generale della Banca d’Italia negli anni Settanta. In una lettera del 1979, Baffi rivendicava con orgoglio di aver difeso la componente aurea della riserva “contro diversi avvisi”, evidenziando come l’aumento del prezzo dell’oro avesse fruttato al paese “un profitto superiore ai 10mila miliardi” di lire. Una visione lungimirante che oggi, con l’oro ai massimi storici, appare profetica. La crescita delle riserve continuò nei decenni successivi, raggiungendo l’attuale consistenza dopo varie operazioni di acquisizione, cessione e trasferimento tra istituzioni finanziarie italiane.
La geografia del nostro oro
L’oro italiano non si trova tutto nello stesso posto, per ovvi motivi di sicurezza. Come spiega Bankitalia, la distribuzione delle riserve è pensata per diversificare i rischi. infatti solo il 44,86% (circa 1.100 tonnellate) è custodito a Roma, nei caveau della Banca d’Italia, il resto è sparso per il mondo: il 43,29% (1.061,5 tonnellate) si trova negli Stati Uniti, il 6,09% (149,3 tonnellate) in Svizzera e il 5,76% (141,2 tonnellate) nel Regno Unito. Secondo Bankitalia, questa dislocazione è dovuta sia a “ragioni storiche, legate ai luoghi in cui l’oro fu acquistato”, sia a una “strategia di diversificazione per ridurre i rischi”. Una scelta pragmatica che riflette l’importanza delle principali piazze finanziarie internazionali nel mercato dell’oro.