Sono cresciuto (e cresco i miei figli) con la religione dello studio

Nato a fine Ottocento nell’entroterra sardo, Cosimo, il nonno di Andrea, all’età di cinque anni, viene mandato dalla famiglia a fare il servo pastore e cresce totalmente analfabeta. Appena maggiorenne viene mandato al fronte durante la Prima guerra mondiale e quella che sarebbe potuta essere la sua disgrazia maggiore, si trasforma nella sua fortuna più grande, perché viene fatto prigioniero quasi subito e in cella trova un persona che gli insegna a leggere e scrivere. Tornato in libertà, vince il concorso di ferroviere e fa studiare tutti i suoi undici figli perché diventassero «migliori di lui». Quel mantra dello studio come strumento di emancipazione sociale ed economica, diventa il leitmotiv con cui anche Andrea, cent’anni dopo, crescerà i suoi figli. 

Tempo di lettura: 9 minuti

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Andrea Polo

Ascolta il podcast della puntata:

“Non ho mai fatto una scelta lavorativa per il denaro perché sono assolutamente convinto che se lo avessi fatto non avrei avuto la stessa felicità che ho avuto, invece, nel fare scelte determinate solo dalla volontà di fare ciò che avevo voglia di fare”.

Riavvolgendo il nastro della storia di Andrea, per raccontare come è arrivato ad avere questa relazione con il denaro, bisogna partire dal 1910, quando suo nonno Cosimo diventa padre. Un viaggio attraverso un secolo di paternità, che Andrea traccia nel suo libro Storie di padri Storie di figli, edito da Paesi Edizioni, e che oggi ripercorrerà insieme a noi. 

Cent’anni prima

Cresciuto alla fine dell’Ottocento in un piccolo paese nel cuore della Sardegna, il nonno di Andrea, Cosimo, all’età di cinque anni, viene mandato dalla famiglia a fare il servo pastore, ovvero colui che accudisce il gregge di un altro pastore ricevendo in cambio, a fine stagione, una pecora. Nella speranza, stagione dopo stagione, di mettere su un gregge proprio. Non sa né leggere né scrivere e cresce totalmente analfabeta. La prima Guerra Mondiale arriva a interrompere il suo destino. 

«Quella che sarebbe potuta essere la sua disgrazia maggiore, in realtà si è tradotta nella sua fortuna più grande, perché viene fatto prigioniero quasi subito e in cella con lui trova una persona che lo prende a benvolere e durante gli anni della prigionia gli insegna a leggere e a scrivere».

Con quella marcia in più, una volta che torna in libertà, Cosimo fa il concorso per lavorare nelle ferrovie e diventa ferroviere. A quel punto, la narrazione di una famiglia che da generazioni lavora nei pascoli, cambia improvvisamente. 

«Lui ripeteva sempre: “I miei figli devono essere migliori di me”. E perciò, li fa studiare tutti. Mio papà è il più piccolo, l’undicesimo, e ci ha sempre raccontato che l’unica volta in cui lui ha visto piangere suo padre, cioè mio nonno, è stato il giorno in cui lui si è laureato. Perché, a quel punto, per lui, nato servo pastore analfabeta, era arrivato il momento della vera riscossa».

L’opportunità di studiare, riservata ai tempi molto spesso solo ai maschi, viene estesa anche alle figlie femmine.

«Una di queste tante zie è stata probabilmente la prima donna farmacista in Sardegna. All’epoca i farmaci li facevano i farmacisti e mi ricordo che mi raccontavano questo episodio in cui la gente entrava nel negozio, chiedeva del dottore, e quando si accorgevano che era lei la dottoressa, se ne andavano, perché non volevano essere serviti da una donna».

Il padre di Andrea, invece, diventa medico. E il mantra con cui è cresciuto, diventa il leitmotiv che adotta anche lui con i suoi figli. 

«Non mi è mai stato detto: “Devi studiare così guadagni di più”, ma piuttosto, “Devi studiare così capisci di più”. Credo che venendo entrambi i miei genitori da origini abbastanza umili, loro sapessero benissimo che il rispetto non era legato al guadagno economico. Una cosa che mi colpì molto quando ero bambino fu il fatto che mi dissero: “Devi imparare bene le tabelline perché se poi ti prendono in giro con il resto nel negozio tu non lo sai”».

E quindi, pur di permettere ai figli di studiare i genitori di Andrea fanno una scelta di vita molto faticosa.

«Noi abitavamo a Cagliari e quando io avevo un anno, mio padre fu trasferito in un paesino al centro della Sardegna, di nome Ghilarza, che proprio in quegli anni stava nascendo come polo ospedaliero e quindi bisognava fare tutto. La scelta che fecero i miei genitori fu quella di continuare a far crescere noi in una città grande, sacrificandosi loro, invece che vivere tutti insieme in un paese di qualche migliaio di anime all’interno della Sardegna. Penso che sarebbe stata una vita probabilmente diversa e certamente più difficoltosa».

Trovandosi il padre a 300 chilometri dal resto della famiglia, la gestione economica e familiare è affidata alla madre

«Lei segnava tutte le spese su questa agenda e questo, probabilmente senza che mi venisse detto ma semplicemente osservandolo, mi ha fatto capire il valore e l’importanza del dover far quadrare i conti in una famiglia in cui si è in cinque e lavora soltanto uno. Ma mi ha anche insegnato che, se i soldi sono ben gestiti, nessuno di quei cinque deve rinunciare a qualcosa».

Andrea apprende così una prima lezione sul denaro, e cioè che i soldi servono, non solo a soddisfare i propri bisogni, ma ad ottenere qualcosa in più. 

“Vengo da due famiglie che hanno dato il giusto peso al denaro perché serviva per poter fare quel qualcosa in più: per andare a vivere in una determinata zona, per comprare casa o per permettere ai figli di andare a studiare fuori”.

Il mantra dello studio

Il peso che nella sua famiglia viene attribuito allo studio, si trasforma a un certo punto in una limitazione della sua libertà di scelta.

«Mi fu impedito di fare il liceo linguistico, che era quello che io avrei voluto fare, perché nella loro mente non esistevano vie di mezzo per cui sei bravo in matematica, fai il liceo scientifico, sei bravo a scrivere, fai il liceo classico, punto. Non esistevano opzioni C D o E».

Cinque anni più tardi, però, questa visione cambia. Andrea vuole studiare Scienze della Comunicazione. Una facoltà che ancora non c’è all’Università di Cagliari e che è totalmente fuori dagli orizzonti professionali che i suoi genitori conoscono. Ma ciò nonostante, decidono di supportarlo. Andrea si trasferisce a Siena. I suoi gli pagano tutto, ma qui lui impara la seconda lezione sul denaro. 

“La scuola era il mio lavoro per cui io non dovevo essere distratto da altro. Però la situazione era: “Tu avrai questo budget ogni mese. Ti basta? Bene. Non ti basta? Problemi tuoi”. E quindi anche lì impari che magari, ogni tanto, è più economico ma anche più divertente comprarsi le pizze e mangiarle a casa con gli amici, anziché andare fuori a cena”.

Andrea riceve 300mila lire al mese, con cui deve far fronte a tutte le spese. Quei soldi, li riceve tramite vaglia postale.

«La cosa molto bella dei vaglia è che si poteva scrivere un messaggio. Quindi io ho ancora tutti i tagliandi di questi vaglia con i messaggi di mio papà, che faceva tanto quello splendido e poi in realtà si scioglieva. Era la sua posta elettronica».

Durante i cinque anni di Università, Andrea si impegna molto. Riceve anche una borsa di studio per andare in Svezia. Una volta tornato, si laurea con largo anticipo, e inizia subito a lavorare.

«Era un momento in cui c’era tanta voglia di avere professionisti preparati nel mondo della comunicazione, perciò la facoltà era a numero chiuso e venivano portati sul mercato del lavoro un numero corretto di laureati ogni anno. Io e tutti i miei colleghi prima di laurearci lavoravamo già. Per esempio, io per laurearmi ho dovuto chiedere un giorno di ferie».

Un diverso mondo del lavoro

Il suo primo impiego è a Firenze, nella casa editrice Giunti. 

«Giunti, all’epoca, era capofila di un consorzio che si chiama Firenze Musei, e che gestisce tutti i musei fiorentini. Perciò io mi sono trovato a fare la riapertura del Corridoio Vasariano, a gestire l’arrivo in Italia della Dama con l’Ermellino. E sono delle cose che ti restano dentro. Ma soprattutto, la fortuna è stata quella di respirare i diversi tipi di lavoro che ruotavano attorno al mondo della comunicazione e capire quale io sentivo più mio».

Dopo qualche anno, la svolta gli si presenta sotto forma di banner pubblicitario su un sito di annunci di lavoro, dove un’azienda americana cerca personale per l’apertura di una sede in Italia. 

«Quell’azienda era eBay e io sono stato il primo assunto in Italia per eBay. Da lì poi è partito un treno ad altissima velocità che mi ha portato a lavorare per immobiliare.it e facile.it».

In questo percorso di vita e di carriera, il posto che Andrea attribuisce al denaro non è mai da protagonista. I soldi sono lo strumento per fare il famoso passo in più. Che nel suo caso non è tanto sociale né lavorativo, quanto un passo in più verso la felicità.  

«Se avessi dovuto fare una scelta legata al denaro non avrei mai abbandonato un lavoro con contratto a tempo indeterminato per un’azienda che non si sapeva nemmeno chi fosse. Quindi ogni tanto bisogna fare in modo che il cuore vada davanti rispetto al portafogli, perché, un portafogli gonfio su un cuore triste non ha mai grande impatto, mentre un cuore sereno su un portafoglio un po più sgonfio ti permette di andare a letto più contento».

I soldi come strumento

La sua filosofia dei soldi guida anche le scelte in merito alla pensione

«Quando, ad esempio, c’è stata la possibilità di fare il riscatto agevolato della laurea, io l’ho fatto subito, ma ancora una volta, per una questione di progettualità non di tipo economico. Perché io spero di poter andare in pensione in un momento della mia vita in cui avrò ancora modo di viaggiare, di passare il tempo con i nipoti, se ne avrò. Quando mi dicono: “Va beh, ma se fai così poi andrai con una pensione più bassa”, ancora una volta io rispondo che non mi interessa essere il più ricco del cimitero, perché preferisco percepire meno di pensione e godermi di più gli anni».

E a distanza di anni, con una moglie e due figli di diciotto e quattordici anni, Andrea chiude il cerchio che suo nonno ha aperto cent’anni prima di lui. Lo studio non è solo l’unica forma di riscatto ed emancipazione possibile. Ma anche la porta per la felicità

«L’eredità che io vorrei lasciare ai miei figli è la loro felicità. E la loro felicità, per mia esperienza, arriva quando tu fai qualcosa che ti rende felice. E ancora una volta, per farlo, devi formarti e studiare quello che tu vuoi che diventi il tuo lavoro. Se, per esempio, vuoi fare il fotografo, devi sapere tutto della fotografia, non solo di quella digitale, ma anche di quella analogica. Perché tutto si trasforma e nulla si distrugge e se c’è qualcosa di cui sono fortemente convinto come professionista è che se c’è qualcosa che puzza a distanza di venti chilometri è l’improvvisazione».

“Tu puoi avere tutti gli orpelli che vuoi, ma se non hai la sostanza, se non hai la spina dorsale che ti sei creato formandoti e studiando, dopo un po’ crolla tutto il castello… e crolla molto in fretta”.

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