Avevo solo 800 euro in tasca, ma una grande fiducia nel futuro
Penelope lascia il Paese in cui è nata, l’Argentina, a 19 anni. È sola e ha 800 euro in tasca. Quei soldi, assieme a quelli per il volo di sola andata, li ha risparmiati durante l’ultimo anno di liceo, lavorando 8 ore al giorno al McDonald’s. A risparmiare ha imparato da suo padre, che non metteva da parte soldi, bensì mattoni. In Argentina i soldi perdono valore subito mentre con i mattoni lui aveva costruito la casa in cui abitavano e altri due appartamenti da dare in affitto…
Tempo di lettura: 10 minuti
“Mio padre era emigrato in Italia a 54 anni, un’età in cui la gente difficilmente si sposta. Cavolo, se lui ce l’aveva fatta ad avere una stabilità per un certo periodo, io che di anni ne avevo 19 non dovevo riuscirci?”.
Così Penelope lascia il Paese in cui è nata, l’Argentina, e vola in Italia, da sola. Ha 19 anni e 800 euro in tasca.
Da un angolo all’altro del pianeta
Novembre 1994. Penelope nasce nella periferia di Buenos Aires. Suo padre fa il falegname, ha già 5 figli da un precedente matrimonio e un sogno in testa: «Voleva provare a far fortuna in un altro Paese».
Grazie a un nonno originario di Camerino, nelle Marche, riesce a ottenere la cittadinanza italiana. E nel 2002, quando Penelope ha 8 anni, realizza il suo sogno: si trasferisce a Macerata.
«Hai presente le rimesse familiari? Tutta questa storia è molto presente nella nostra famiglia. Perché lui in Italia ci è andato da solo e ci mandava i soldi a casa».
Penelope oggi non saprebbe definire il loro status economico dell’epoca: «Io volevo tante cose. Ho sempre voluto tante cose, alcune mi venivano date, altre no. Però soffrivo, perché io volevo pure quelle che non mi davano».
I soldi in casa li ha sempre gestiti suo padre. La madre proveniva da una famiglia uruguayana molto umile. Aveva lasciato gli studi presto e fin da quando aveva 9 anni, si era occupata del fratello con la sindrome di Down che aveva bisogno di assistenza continua.
«Il suo lavoro di tutta la vita è stato occuparsi di mio zio, che è venuto a mancare proprio una settimana e mezzo fa. Ma lui ha vissuto tantissimo: i medici hanno sempre detto a mia madre che è stata bravissima a prendersi cura di lui, perché non tutti i ragazzi con la sindrome di Down vivono così a lungo».
L’attività di caregiver, però, rende la mamma di Penelope dipendente in tutto e per tutto dal marito.
“La dinamica era questa: lui portava i soldi a casa, e mia madre li riceveva per fare la spesa, per fare degli acquisti, sempre però col freno a mano”.
Quando Penelope ha 9 anni, è giunto il momento di raggiungere il padre in Italia. Lei non vorrebbe mai lasciare il suo Paese, i suoi amici, ma è la famiglia a decidere al suo posto. In Italia riesce a integrarsi facilmente, ma la percezione del suo status sociale, della sua classe di appartenenza, diviene più netta.
«A volte mi chiedevo perché la mia compagna avesse uno zaino così carino, e noi andassimo all’Eurospin a comprare le cose più economiche. Per carità, so che non sono l’unica ad aver avuto questa esperienza. Però quando sei piccola, o stai entrando nell’adolescenza, cominci a farti un sacco di domande, a chiederti perché non hai le stesse cose che hanno gli altri. All’epoca ne ho sofferto parecchio. Anche in Argentina ci sono tante disuguaglianze sociali. Ma lì eravamo tutti nella stessa barca, la differenza l’ho notata meno».
Lo zio con la sindrome di Down è rimasto in Argentina, affidato a un’altra sorella. Per la prima volta, la madre di Penelope può cercarsi un lavoro fuori di casa. Inizia così a darsi da fare, facendo le pulizie e stirando. Ma questo non la rende davvero autonoma economicamente.
«Continuava a esserci questa dimensione del controllo da parte di mio padre, anche nei miei confronti».
Proprio quando Penelope inizia a vedere un futuro in Italia, i suoi genitori gettano la spugna. L’impresa di infissi che suo padre ha fondato non regge alla crisi del 2008. Un senso di fallimento si abbatte sull’intera famiglia, che nel frattempo si è ingrandita con l’arrivo di una sorellina. L’Argentina è l’unico posto dove hanno veramente qualcosa. E quel “qualcosa” è la casa che suo padre ha costruito con le sue mani, mattone dopo mattone. Decidono così di tornare.
«Io avevo 15 anni quando mi hanno detto: “Torniamo in Argentina”. E io: “Nooo!”. Stavo giusto cominciando il liceo linguistico e mi piaceva un sacco questa nuova cosa che stavo facendo…».
La voglia di autodeterminarsi
Una volta tornata in Argentina, Penelope è determinata a uscire dalla dinamica in cui sono sempre gli altri a decidere per lei.
“Io volevo i miei soldi. Non volevo più che mio padre mi dicesse ‘Ti do questo, arrangiati’. Io volevo avere i miei soldi e scegliere io a cosa dare priorità”.
Penelope inizia le scuole superiori in Argentina. È brava e i compiti a casa non sono molti. L’ultimo anno decide quindi di andare a lavorare.
«La nostra città ha un aeroporto e lì c’è il McDonald’s. Io andavo a scuola al mattino, dalle 8 all’una. Poi il pomeriggio, dalle 15 alle 21 facevo il mio turno al McDonald’s. Così, per tutto un anno. Volevo risparmiare per poter tornare in Italia».
Metà dei soldi che guadagna li spende in vestiti o vacanze con amiche. Metà li tiene da parte. La cultura del risparmio è fortemente radicata nella sua storia familiare.
«Mio padre risparmiava per poi acquistare mattoni. È così che ha costruito la nostra casa e anche degli appartamenti in un altro pezzetto di terra che avevamo. Per lui il risparmio non è tanto possedere denaro, ma comprare qualcosa come dei mattoni per fare degli appartamenti e affittarli. Questo perché in Argentina c’è tanta svalutazione, quindi risparmiare non ha molto senso».
Anche Penelope sperimenta la difficoltà di risparmiare in Argentina:
“Ho fatto veramente fatica a mettere da parte quei soldi. Periodicamente, cambiavo in euro la somma che racimolavo. Ma la stessa cifra che avevo cambiato la volta prima, dopo pochi mesi valeva meno. Era sempre tutto al ribasso”.
Penelope risparmia per un obiettivo molto chiaro: comprare un biglietto di sola andata per l’Italia, destinazione Macerata, e avere di che sostenersi i primi tempi.
L’avventura italiana
Parte 5 mesi dopo la maturità con 800 euro in tasca. Ai genitori non se la sente di chiedere un aiuto economico.
«Il loro guadagno era veramente minimo. Pensa che adesso mio padre è in pensione e prende meno di quello che guadagnavo io al McDonald’s. Non me la sono mai sentita di chiedere loro dei soldi, “Preferisco li usiate con mia sorella”, dicevo loro».
A Macerata è inizialmente ospite di un’amica, ma ci rimane giusto il tempo di trovare un lavoro.
«L’ho trovato abbastanza presto, dopo 15 giorni ero in un bar. Per carità, era una paga misera, metà in busta metà fuori… Quindi non era partita proprio benissimo. Sono stata lì un mesetto e poi, visto che avevo esperienza al McDonald’s, ho bussato alle loro porte e mi hanno preso. Inizialmente mi hanno proposto un periodo di prova con i voucher».
Non appena riceve il primo stipendio, Penelope prende in affitto una stanza, e si iscrive all’Università, facoltà di Relazioni Internazionali. Dopo poche settimane, però, un incidente rimette tutto in discussione.
«Avevo comprato un motorino, che se lo vedi ti metti a ridere, perché era tipo una bicicletta col motore. Un signore non mi ha visto nella rotonda e mi ha investito. Lì ho pianto tantissimo perché ho pensato che non mi avrebbero più voluta al lavoro. Ero molto spaventata. Ma le persone con cui lavoravo al McDonald’s mi hanno detto che mi avrebbero aspettato».
Penelope ha il braccio sinistro bloccato, ed essendo mancina è impossibilitata a fare la maggior parte delle cose. Ancora una volta, un’amica le viene incontro ospitandola in casa: «Ho avuto sempre persone che mi hanno aiutato molto e sostenuto, anche se non erano miei familiari stretti».
Al lavoro la aspettano, ma il sistema dei voucher non le garantisce nessuna indennità di malattia. Penelope, però, deve onorare le spese fisse su cui si è impegnata.
“Sono arrivata a dicembre che avevo 10 centesimi nel portafoglio. Quello è stato uno dei punti più bassi che ho vissuto in questa avventura. Però da lì in poi è stato tutto in salita”.
Durante tutte queste avversità mai, neppure per un momento, Penelope pensa di lasciare l’università. «Perché io volevo studiare, ero stata molto brava a scuola, sempre. Quindi per me studiare è stata una cosa super importante e quindi, anche se avevo pochi soldi, mi sono iscritta all’università. Dopo di che ho cominciato a cercare le borse di studio, l’esenzione dalle tasse… Alla fine pagavo solo la prima rata, perché avevo un Isee bassissimo. E così ce l’ho fatta».
La prima laureata in famiglia
Estate 2018. Penelope sta per laurearsi. Con quello splendido tempismo con cui la vita di tanto in tanto cerca di stupirci, arriva il risarcimento dell’incidente che ha subito. Non sono tanti soldi, ma le permettono di fare un cosa che desidera tantissimo.
“Ho pagato il viaggio ai miei e a mia sorella per venire in Italia. Sì, perché era una cosa importante, per me ma anche per loro. Nella nostra famiglia non c’è nessuno laureato. Mio padre ha finito la primaria e mia madre la secondaria. Poi loro avevano vissuto a Macerata, quindi ritornare con mia sorella che intanto era cresciuta è stato molto bello”.
Dopo la Triennale Penelope va a Padova per frequentare, in inglese, la Magistrale in diritto internazionale. «Anche lì ho fatto qualche lavoretto, ma non full time perché volevo concentrarmi sugli studi: volevo prendere la lode che avevo mancato alla Triennale».
Penelope ottiene una borsa di studio che la porta in Grecia, poi un’altra che la fa trasferire in Francia. Il suo sogno, però, è lavorare in un’organizzazione internazionale nell’ambito dei diritti umani e degli aiuti umanitari. Così fa domanda di tirocinio alla Commissione europea e viene presa. Eccola dunque oggi, 28enne, a Bruxelles.
«Ho cominciato a marzo, è un tirocinio pagato ed è proprio nella direzione generale che si occupa di aiuti umanitari, quello che volevo».
I soldi le bastano appena ma Penelope ormai è una professionista del risparmio: «In questi anni mi sono organizzata con una serie di fogli Excel, magari il mio metodo è un po’ ossessivo compulsivo, ma per me è importante avere il controllo delle entrate, stabilire cosa dedicherò alle varie esperienze…».
La sua visione è profondamente cambiata da quando, bambina, era infelice per tutto ciò che non poteva avere.
«Adesso, se non posso comprarmi qualcosa mi dico che potrò averla più in là, è solo questione di tempo».
L’arte di lanciarsi senza paracadute
Arrivata in Italia con 800 euro in tasca, oggi Penelope ha una laurea magistrale e 10mila euro di risparmi in banca. Le chiedo come si fa a lanciarsi senza paracadute.
“A volte ci ripenso e mi dico che sono stata molto incosciente. Ma in realtà non è questa la parola giusta. Io ero lanciatissima e molto speranzosa. Perché pensavo a tutte le persone che ce l’avevano fatta prima di me, perché io non dovevo riuscirci? Avevo tutte le carte in regola!”.
Il paracadute di Penelope è la speranza, alimentata da chi, prima di lei, ha fatto quello stesso volo. Suo padre per primo. Che ha fallito, ma non per questo ha smesso di ispirarla.
«Per quanto abbia dei difetti, una cosa di lui che ammiro è l’intraprendenza, nonostante il fallimento di alcune sue imprese… È stata una persona che ha cercato di reinventarsi sempre. Questa è una cosa che apprezzo e in cui prendo spunto da lui».
Qualcosa, però, sta cercando di fare meglio di lui: oltre a lavorare e a impegnarsi costantemente, Penelope ha imparato a godersi la vita.
“Nonostante tutto questo risparmio e questa attenzione alle spese, se voglio andare in vacanza ci vado. Magari non in hotel a cinque stelle e sempre facendo attenzione a un budget. Cerco però di godermi la vita e di accumulare esperienze e ricordi con le persone che amo”.