Ci ho messo 22 anni a fidarmi del mio talento
Da bambina, Barbara Oliva scopre dentro la bottega avveniristica di suo padre, la passione e il talento per il design. Ma quando il progetto di famiglia fallisce, e quel periodo diviene quasi un tabù di cui è vietato parlare, Barbara focalizza la sua attenzione sulla sicurezza economica. Trova lavoro a tempo indeterminato in un’azienda di telecomunicazioni e diviene workaholic. La nascita di sua figlia rimette tutto in discussione.
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“I primi anni dell’infanzia sono stati quelli del benessere assoluto, ma ero molto piccola. L’età della consapevolezza, della conoscenza, è stata più faticosa perché c’è stato un inciampo: mio papà si è fidato di una persona sbagliata e i soldi sono svaniti all’improvviso. Tutti insieme, di botto”.
Barbara Oliva è figlia di un artigiano, un parrucchiere di grande creatività e talento, uno dei primi in Puglia a lavorare per le sfilate e a portare innovazione. Aveva costruito una piccola fortuna, suo padre. E con essa aveva finanziato un sogno. Un enorme salone: 1700 metri quadrati nel centro di Taranto, una struttura eclettica dove le sale dedicate alla bellezza erano precedute da una galleria di design e seguite da una bottega di oreficeria gestite da sua madre.
In quel posto, Barbara bambina, nel passaggio tra le elementari e le medie, sta come in un luna park. «Passavo le giornate scoprendo e amando il design: lì nacque il mio amore per Enzo Mari, per Bruno Munari… Lì iniziai a disegnare i miei primi gioielli, molti di quelli che indosso sono disegni miei. Passavo le ore incantata a osservare gli orafi che erano nella bottega, intenti a produrre le sculture di ogni sorta di metallo».
Poi però, il socio che avrebbe dovuto garantire il successo di quel progetto avveniristico scappa con una condanna per frode sulla testa. Il papà di Barbara, per non fallire, è costretto a rinunciare a oreficeria e design e a ricominciare il suo lavoro da zero. Barbara dimentica la passione scoperta in quel salone delle meraviglie, perché di quanto avvenuto in quegli anni non se ne parla più: «Questo è un tabù, una cosa di cui in casa non si parla, perché scatena malessere in tutti. Non ti posso dire gli anni precisi in cui è successo, perché non rivanghiamo mai l’argomento. Ne parliamo poco o niente».
Eppure, quella scintilla di cui per lunghi anni si è persa memoria, un bel giorno si è riaccesa.
Una giovinezza ad amplificare il poco che c’era
I genitori di Barbara si rimettono in piedi piuttosto presto, ma con le tasche vuote e pieni di debiti.
«Non potevamo più fare le vacanze in montagna, in Trentino Alto Adige, come avevamo sempre fatto. Non avevamo più la spiaggia con l’ombrellone e la cabina chic solo per noi. È cambiato totalmente il nostro stile di vita. È stato un momento di buio totale».
Quel cambiamento repentino coincide con l’adolescenza di Barbara: «In piena epoca dei paninari, e questo ti dice qualcosa sulla mia età anagrafica, dove la firma e l’aspetto esteriore erano la misura del valore delle persone, io mancavo proprio in quello. Per me i soldi erano veramente un problema».
Barbara va a studiare prima a Roma, poi a Pisa. È molto brava, vince sempre le borse di studio, quindi niente tasse universitarie, ma il costo della vita è comunque da sostenere.
“I miei genitori mi aiutavano, mi davano una cifra che per loro era tantissimo, ma che non bastava neanche a pagare l’affitto. E quindi iniziai a lavorare di nascosto, perché non volevo che mio padre si sentisse mortificato. Ricordo che a Roma nei primi anni Novanta mi inventai chef a domicilio: tirai dentro tre compagne dell’università e proponevo due menù di cucina pugliese, uno di pesce e uno di carne. La mia prima impresa”.
Barbara si destreggia tra mille lavoretti. Come quando da piccolina aiutava il papà in bottega, misura le sue entrate in chilometri che può percorrere.
«La mattina del sabato all’università mettevo la sveglia prestissimo. Se c’era qualcuno che veniva con me, bene, altrimenti viaggiavo da sola. In base a quello che ero riuscita a mettere da parte o che avevo deciso di destinare a quel tale weekend, andavo in biglietteria e dicevo: “Io ho x soldi, dove posso andare per tornare poi anche indietro?” Arrivavo lì, zaino in spalla, merenda e andavo in esplorazione. Ero povera, ma non mi sentivo povera. Certo, non avevo tanti soldi e non potevo chiederli a casa, ma quello che arrivava lo amplificavo, lo usavo al meglio per viaggiare, ma anche per crescere, fare esperienze, andare a teatro o comprare un sacco di libri».
Una maturità da workaholic
Mentre sta terminando i suoi studi viene assunta part-time nel call center di un’azienda di telecomunicazioni. Sul suo conto arriva un primo stipendio vero. A cui affianca altre piccole entrate. Fino al giorno in cui, l’azienda per cui lavora apre una posizione interna in marketing e comunicazione digitale, proprio ciò che si è messa a studiare dopo l’università. Barbara si candida e vince. È il momento di trasferirsi nel quartier generale a Milano.
«Ero folle di felicità. Era una cosa che non mi aspettavo. Perché sì, stavo studiando marketing e comunicazione digitale. Ma vincere un job posting così ad alto livello in quell’area e in un’azienda così prestigiosa, per me fu pazzesco».
A Milano si trasferisce col compagno che presto diventa marito.
«Ero così appassionata di quel lavoro, così innamorata di quell’azienda, così ammantata di questo prestigio, che divenni presto workaholic: lavoravo una quantità di ore senza limite, arrivavo a stare male fisicamente. Lunedì, sabato e domenica erano giorni uguali. Mi sembrava di lavorare in pronto soccorso: la follia».
Lo stipendio era allineato con tutto questo entusiasmo?
“Te lo dico schietta e diretta: no! I soldi che arrivavano non erano commisurati né all’impegno né al prestigio né alla quantità di valore che io producevo in azienda. Pur avendo fatto carriera, lo stipendio era strettamente interconnesso a quello del call-center che mi aveva assunto. E questo è un errore imperdonabile”.
«Oggi ti posso dire che la busta paga era al limite del ridicolo. All’epoca mi bastava e mi sembrava addirittura giusta. Però poi non bastò più. Cioè io arrivai a gestire 30 persone, i più giovani che entravano dopo di me, per ruoli minori del mio e con meno responsabilità e meno impegno, prendevano già più soldi di me».
Per capirlo, a Barbara ci sono voluti anni: «Non avevo grilli parlanti fuori. E, per definizione, grilli parlanti interni non esistono».
Intanto, assieme al marito ha fatto un progetto di vita che fatica a compiersi del tutto. «Il motivo per cui non arrivavo a essere genitore era che ero workhaolic. Questa cosa mi è costata cara, nel senso che avendo investito tutte le energie emotive ma anche fisiche in questo lavoro che mi appassionava ed era totalizzante, ovviamente non lasciavo al mio corpo e alla mia emotività spazio e risorse a cui attingere per restare incinta».
Quando non ne possono più di provarci naturalmente, Barbara ha 42 anni e il 15 settembre 2012 prendono appuntamento per iniziare il percorso di adozione. Quell’agosto decidono di lasciarsi tutte le preoccupazioni alle spalle e di fare un lungo viaggio all’estero. «Tornammo il 5 settembre, feci il test di gravidanza, era positivo e quindi il 15 non andammo più a fare la richiesta di adozione».
La decisione di cambiare lavoro
Come spesso accade, la maternità diventa il detonatore del cambiamento. La miccia è la consapevolezza di avere uno stipendio inadeguato. Ma se le considerazioni si fossero fermate all’aspetto economico, Barbara sarebbe semplicemente uscita da quell’azienda e avrebbe cercato lavoro altrove. C’è dell’altro.
«La seconda motivazione era il fatto che non vedevo proiezione: io non imparavo più. Stavo solo insegnando: le persone mi venivano affidate, le dovevo formare, coordinare e gestire. Però non stavo imparando più cose nuove. Perché? Non perché non ci fosse più nulla da imparare, ma perché l’azienda mi aveva dato un messaggio molto chiaro e cioè che non investiva più sui senior, ma si era ammalata di giovanilismo. Tutte le risorse economiche, le energie, la formazione erano dedicate ai neolaureati o comunque alle nuovissime leve».
C’è poi una terza cosa che spinge Barbara a cambiare completamente ambito professionale.
“Con la maternità, per la prima volta ho visto che potevo generare qualcosa di reale, tangibile. Io, che sono sempre stata innamorata dei pensieri, delle parole, e che certamente non ho mai avuto un’ascia in mano, mi ero resa conto che produrre cose reali faceva una grossa differenza. E quindi mi era venuta una voglia pazzesca di concretezza. Io creavo pagine web, testi digitali, mi sembrava che l’unica cosa reale fossero le stampe che uscivano dalla fotocopiatrice. Questo è stato un campanello di allarme per me, perché voleva dire che dovevo svoltare”.
Quando la figlia ha due anni, nel 2015, Barbara realizza che non è più innamorata del suo lavoro e che deve cambiare. Ma per fare cosa?
«Okay, Barbara, va bene, questa voglia di fuggire ce l’hai, l’abbiamo capita, ma adesso siediti, prendi carta e penna, fai un business case e inizia a lavorare sulle cifre, sul tempo e sullo spazio. Proprio in quell’anno incontrai la figura di Emilie Wapnick, che parlava del fatto che in ognuno di noi ci sono tanti talenti che non sono solo le cose che sappiamo fare, ma sono le cose che sappiamo fare molto bene e che ci fanno stare molto bene, non solo quando finiamo di farle, quando raggiungiamo l’obiettivo, ma che ci fanno stare bene mentre le facciamo e le viviamo. Guardandomi dentro, tra le tante anime che ognuno di noi ha, la risposta urlò a gran voce. La mia vocazione era l’interior design, la progettazione di interni e poi la gestione di processi complessi, che era quello che avevo imparato in azienda. Quindi misi insieme le due anime».
La scoperta di una vocazione
Barbara, fin da quando giocava nel negozio di suo padre, aveva sempre coltivato la passione per il design e la progettazione. Sua madre le aveva insegnato l’amore per l’antiquariato, l’arte, il modernariato e l’arredamento. Erano cose che le venivano proprio bene.
“La prima casa che disegnai e che seguii nella costruzione passo passo, fu la villa dei miei genitori, quando avevo 18 anni e studiavo tutt’altro. Io ero in cantiere, parlavo con gli operai che ovviamente mi guardavano come una marziana. Parlavo con l’ingegnere, parlavo con l’architetto. I miei non avevano quelle competenze, ma sulla carta non le avevo nemmeno io”.
Da allora, chiunque dovesse rifare casa, tra i suoi amici o conoscenti, la chiamava.
«Una volta mi sono messa lì con carta e penna a elencarle, mi sono accorta che in pochi anni avevo tirato su una trentina di case, tra amici, parenti e colleghi. Semplicemente, non avevo mai pensato di farmi pagare perché era una cosa che mi veniva totalmente naturale. Una cosa bella che non mi era mai venuto in mente che potesse essere un lavoro».
E così Barbara, con la maturità di 22 anni di managerialità aziendale e un talento che non aveva mai chiamato lavoro, fonda l’impresa di design di successo che ora porta il suo nome.
“Non mi era mai venuto in mente che potessi fare l’imprenditrice. Non era nel registro dei miei pensieri, perché non avevo una famiglia alle spalle che aveva fatto qualcosa del genere. Nella mia formazione, nella mia consapevolezza, questa cosa è arrivata quando mi sono guardata dentro e ho chiesto a me stessa cosa volessi fare della mia vita”.