Come capire se il tuo stipendio da libero professionista è adeguato

Tempo di lettura: 7 minuti

Giorgia Nardelli
Giorgia Nardelli

di

Giornalista esperta di diritti dei consumatori e finanza personale.

blank

Ci sono almeno due tipologie di professionisti a partita Iva: quelli con più clienti, e coloro che invece hanno un solo committente che assorbe il 90%, se non il 100% del tempo dedicato al lavoro. A volte è una scelta, altre una necessità, altre ancora capita e basta: c’è chi è appena entrato nel mondo del lavoro e parte con una collaborazione “a tempo pieno” sperando in una stabilizzazione, chi invece il posto fisso lo ha lasciato e desidera maggiore autonomia, chi ancora è un ex dipendente di un’azienda in crisi, convertito alla libera professione per necessità. Situazioni diverse, certo, ma accomunate da uno stesso tema: qual è il valore da dare al lavoro autonomo, in questi casi? Come distinguerlo da un contratto da dipendente “mascherato”, e come regolarsi, visto che il fornitore, e cioè il lavoratore, non viene pagato per un singolo progetto, ma ciò che fa costituisce per lui un’occupazione a tempo pieno? 

Quanto guadagna in media un lavoratore autonomo

Esiste uan larga fetta di freelance con un solo committente. Questi professionisti vengono retribuiti con un fisso mensile, il più delle volte senza che sia stato definito un determinato numero di progetti o servizi, proprio come accade ai lavoratori subordinati. C’è chi per esempio cura la comunicazione web per una società, chi la grafica per una casa editrice, chi gestisce i contenuti social, ma le declinazioni possono essere decine in tutti gli ambiti. La domanda è: sono adeguati i compensi corrisposti a forfait? L’indagine sui redditi dei lavoratori parasubordinati negli ultimi due anni, commissionata da Nidil Cgil alla Fondazione Giuseppe di Vittorio lascia intendere di no. Stando al report, più di 340.000 professionisti iscritti alla Gestione separata Inps guadagnano in media 15.800 euro lordi all’anno, non arrivano cioè nemmeno a 1.500 euro (lordi) al mese. Il dato riguarda tutta la platea delle partite Iva non iscritte alle casse professionali, non solo quelle con un unico committente, ma certo non fa ben sperare. Il 33,4% di questi lavoratori, tra l’altro, ha meno di 34 anni e guadagna mediamente 12.300 euro lordi l’anno.

La differenza tra libero professionista e lavoratore dipendente

Prima di ragionare sui compensi è bene fare un distinguo, avverte Roberta Turi, segretaria nazionale di Nidil Cgil, la sezione del sindacato che si occupa di lavoratori atipici: «Premesso che a volte sono gli stessi professionisti a preferire la formula del lavoro autonomo, arrivando a concordare compensi anche alti, è importante distinguere la libera attività da un lavoro dipendente “mascherato”». Nessuna carta e nessuna legge disciplina questo aspetto, ma ci sono alcune differenze sostanziali. «Il libero professionista “puro” ha solitamente più committenti, e non uno solo, ma possiamo affermare senza dubbio che la differenza principale tra un autonomo e un subordinato è nell’autonomia: chi lavora in proprio deve potersi dedicare alle sue attività senza che altri dettino modi e tempi. Sebbene le scadenze siano concordate con il committente, questi non può imporre né il rispetto di determinati orari di lavoro, né l’obbligo di presenza in sede o di reperibilità in determinati giorni o fasce orarie», spiega la sindacalista. «Anche utilizzare strumenti di proprietà del datore di lavoro è un elemento che riconduce alla subordinazione, così come ricevere sanzioni o richiami, dover concordare le ferie».

Se situazioni del genere si protraggono nel tempo, il lavoratore non deve che raccogliere le prove, anche tenendo un diario, e poi capire in che modo dimostrare il rapporto di subordinazione e far valere i suoi diritti. «Se in azienda è presente una rappresentanza sindacale, ci si può rivolgere a loro per avviare una trattativa che porti a una stabilizzazione, in caso contrario ci sono i sindacati, ma è importante tenere il punto su questo. Il lavoro autonomo dovrebbe essere una scelta, fatta con la consapevolezza che si sacrificano diverse tutele in cambio di una certa libertà d’azione, se anche questa viene a mancare, quelle tutele vanno reclamate».

Il tariffario e l’equo compenso

L’anno scorso è stata varata una legge pensata per tutelare i professionisti autonomi (la 49/2023) che impone compensi minimi. Al momento, però, la norma è solo sulla carta, e non riguarda tutti gli autonomi. Si rivolge infatti ai professionisti iscritti a un ordine o a un collegio professionale, a cui si aggiungono coloro che sono rappresentati da un’associazione di categoria che ha ottenuto un’autorizzazione dal ministero della Giustizia, come tributaristi, pedagogisti, e traduttori. «Le tariffe sono stabilite dal Decreto ministeriale n. 140/12, che prende specifiche tabelle per ogni singola professione ma deve ancora essere aggiornato, con l’unica eccezione degli avvocati. Quanto alle professioni non ordinistiche dovrà essere adottato un apposito decreto, che stiamo ancora aspettando. Infine, va detto che il vincolo del compenso minimo si applica solo nei contratti con enti pubblici, istituti bancari e assicurativi e aziende con più di 50 dipendenti o ricavi sopra i 10 milioni di euro. Quando arriveranno, si spera presto, gli altri potranno comunque partire da queste tariffe», dice Turi.

Come stabilire il giusto compenso

Il tema quindi resta, ma un modo per calcolare il giusto compenso, specie se il lavoro svolto è più simile a quello di un dipendente, è parametrarlo sulla base delle retribuzioni dei dipendenti. «Come sindacato siamo convinti che il compenso per una prestazione professionale dovrebbe essere pari al costo che l’azienda paga per un lavoratore dipendente con lo stesso ruolo e le stesse mansioni, e che invece resta a carico degli autonomi. Nel calcolare la cifra non bisogna quindi orientarsi sulla retribuzione netta, ma questa può costituire un punto di partenza per aggiungere poi le diverse voci», spiega Turi. Quali? Tredicesima, contributi previdenziali e assicurativi, e quota annuale di Tfr.

Qual è il giusto compenso mensile per un grafico: la simulazione

Nidil Cgil ha fatto un “esercizio”, prendendo ad esempio la categoria dei grafici. Sono partiti dalla retribuzione netta mensile del livello A (1618, 82 euro), a cui hanno aggiunto la contingenza di 533,19 euro al mese (si tratta di una voce retributiva a importo fisso, prevista dai contratti collettivi), e l’EDR (che rappresenta un’altra voce fissa mensile che compare nel cedolino, sta per elemento distinto della retribuzione, è pari a 10,33 € lordi e viene applicato per tredici mensilità: nasce come compensazione all’abolizione dell’indennità di contingenza, che serviva a adeguare la retribuzione del dipendente all’inflazione e all’aumento del costo della vita). In secondo luogo, hanno moltiplicato il totale per 13 mensilità, e al totale hanno aggiunto i contributi previdenziali e assicurativi, in media il 31%, e la quota annuale del Tfr. È venuto un importo lordo mensile di 3.158,8 euro, da cui è stata calcolata la paga oraria minima di 18,58 euro.

«A queste voci andrebbero aggiunte le spese di assicurazione obbligatoria, se previste dalla professione. Bisogna inoltre tenere conto delle responsabilità. Se come professionista anche esterno si ha un ruolo di rilievo, per esempio di coordinamento, bisognerebbe orientarsi a partire dal contratto di un lavoratore di livello più alto», aggiunge Turi.

Come riadattare il conto

Per riadattare la formula utilizzata dal sindacato a un’altra professione occorerebbe la busta paga di un collega di pari livello con contratto subordinato, che contiene tutte le informazioni – qui spieghiamo come leggere la busta paga -, oppure calcolare un forfait basandosi sulle informazioni che sono nel contratto nazionale di categoria, che include le tabelle minime retributive con lo stipendio lordo mensile minimo, eventuale indennità di contingenza e altri elementi che formano la retribuzione fissa. E usare quelli come punto di riferimento. Oppure, per semplificare, ispirarsi alla retribuzione lorda mensile, ben consapevoli che il lordo include altre voci, come eventuali detrazioni, superminimi, ecc.

L’esempio dei lavoratori dello spettacolo: calcolare il 150%

Come spiegano sul loro blog gli esperti di Actainrete, l’associazione dei freelance, un’altra tecnica potrebbe essere quella di ispirarsi al Contratto collettivo nazionale per i lavoratori del teatro, che stabilisce che il compenso degli autonomi deve essere almeno pari al 150% di quello dei dipendenti, a partire dal lordo. Dunque, se la paga minima da contratto di un dipendente è di 2.000 euro lordi al mese, l’autonomo dovrà chiederne 3.000 (più Iva) (l’associazione ha anche da poco pubblicato una guida completa e messo appunto un algoritmo per calcolare i giusti compensi nel settore dell’editoria).

Il fattore tempo: quanto è importante calcolare le ore

Quando si calcola il giusto compenso, inoltre, non va trascurato il fattore tempo. La prima domanda da farsi, suggeriscono da Acta, è questa: quanto tempo mi porta via quel lavoro che mi viene pagato con un fisso mensile? In questi casi, infatti, il committente potrebbe tendere ad aumentare il peso di lavoro o gli incarichi. Il tempo effettivamente speso diventa quindi un parametro decisivo per capire se quanto viene pagato è in linea con l’impegno richiesto, ed è per questa ragione che il primo passo è calcolare le ore spese.

Perché non conviene venire a patti sul prezzo

Una volta ottenuto il dato delle ore effettivamente impiegate, gli esperti di Actainrete suggeriscono di fare un altro esercizio, e cioè suddividere il compenso forfait pattuito, con quella che dovrebbe essere la giusta retribuzione oraria. Il risultato sono le ore che si dovrebbero effettivamente spendere in cambio di quell’importo mensile. Poniamo che il committente proponga 2.000 euro al mese lordi, e i calcoli precedenti ci dicano che il nostro compenso minimo orario dovrebbe essere di 20 euro all’ora, basterà dividere 2.000 per 20. Il risultato, 100, equivale alle ore che dovremmo impiegare per fare ciò che ci viene richiesto: 25 a settimana, non più di 5 ore piene al giorno. «Il committente ci chiede di lavorare per più ore? E noi chiediamo più soldi», è la conclusione degli autori del blog.

Quanto costa svendersi

Abbiamo già scritto su Rame quanto sia importante darsi il giusto valore ma Roberta Turi aggiunge una riflessione non secondaria: «Resistere alla tentazione di abbassare l’asticella è difficile, quando si tratta di strappare un contratto necessario per la nostra sopravvivenza, ma diventa anche un dovere sociale. Un compenso troppo basso non solo metterà in difficoltà per primi noi stessi, ma asseconderà un mercato che tende a svendere il costo del lavoro con effetti dannosi su tutti i  lavoratori della nostra categoria. È la ragione per cui come sindacato ci stiamo battendo affinché la norma sull’equo compenso, che finora ha dato risposte solo per alcuni lavoratori e solo parziali, venisse ripresa in mano e rivista». Nel frattempo, ciascuno può fare la propria parte combattendo la sua battaglia.

Condividi