Come gestire le spese comuni in coppia

La gestione delle spese comuni andrebbe organizzata con la massima cura, perché la decisione su chi paga cosa, avrà conseguenze.

Tempo di lettura: 8 minuti

Giorgia Nardelli
Giorgia Nardelli

di

Giornalista esperta di diritti dei consumatori e finanza personale.

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Quando si diventa coppia prima, e famiglia poi, la gestione delle spese comuni è uno di quegli aspetti che andrebbe organizzato con la massima cura, perché dalle scelte di oggi dipende il benessere economico delle persone coinvolte. Non solo nell’immediato: la decisione su chi paga e in che misura la scuola e i vestiti per i figli o le vacanze, su chi si intesta la casa e come l’altro contribuisce al mutuo avranno delle conseguenze. Essere arrendevoli su certi aspetti è come mettere un’ipoteca sul futuro, specie in caso di separazione o di divorzio. Alzi la mano, per esempio, chi ha mai “contabilizzato” il lavoro casalingo, o pensato a una tutela in caso di separazione. Ecco allora qualche consiglio su cosa fare ora, per non avere problemi poi e per prevenire la violenza economica.

Perché avere un terzo conto corrente

«Riflettiamoci un attimo: la famiglia è come un’azienda», dice subito Monica Vitali, esperta di economia aziendale e di controllo di gestione. «La gestione degli aspetti economici va impostata allo stesso modo: servono programmazione e organizzazione». Prendiamo il caso di una famiglia in cui entrambi i partner lavorano o hanno entrate proprie. «La soluzione più razionale è avere due conti separati, e aprirne un terzo in cui ciascuno dei partner verserà una somma mensile per le spese fisse. Naturalmente va stabilito da subito cosa sarà pagato con quel conto, dal mutuo alle bollette, dalla retta del nido alle vacanze». Avere tre conti non è un lusso, sottolinea l’esperta, ma un’esigenza per tenere una contabilità certa delle spese di casa, che è di grande aiuto nella gestione. Tra l’altro, oggi si possono scegliere conti correnti con costi molto bassi (ne abbiamo parlato noi di Rame qui), che non pesano sul bilancio. «Quello che dovremmo interiorizzare è che impostare un metodo non indica mancanza di fiducia o di amore nella coppia, anzi, fa bene anche alla relazione amorosa: se finanziariamente le cose sono divise equamente, ci si libera da vincoli e complicazioni che appesantiscono il rapporto». Inoltre, non va dimenticato: «Avere conti separati ci dà la libertà di poter fare dei nostri soldi ciò che desideriamo, senza dover rendere conto a qualcun altro».

Come gestire le spese di casa: il controllo di gestione casalingo

«Nulla va lasciato al caso», aggiunge Monica Vitali. «La contabilità casalinga va sempre tenuta d’occhio facendo un vero e proprio controllo di gestione. Si può cominciare scaricando l’estratto conto trimestrale, che riepiloga le entrate di ciascuno e le uscite, ma non basta leggerlo e controllare il saldo. L’operazione da fare sarebbe quella di trasferire su un file excel tutte le voci, categorizzarle e magari segnarle di colori diversi. È un modo non solo per verificare quanto si spende per ciascun capitolo, ma anche se il nostro contributo è adeguato o se va modificato qualcosa nelle decisioni di spesa. Anche questo fa bene alla coppia». Inoltre, ragiona l’esperta, avere consapevolezza dei conti della famiglia è uno strumento che aiuta a gestirla correttamente e previene la violenza economica. «Ricordiamo sempre che l’informazione è potere».

Come dividere le spese di coppia, i tre punti chiave

A questo tema si lega un altro altrettanto importante, e che riguarda quanto ciascuno dei partner deve versare sul conto. Il fatto di essere in due, infatti, non significa automaticamente che sia necessario dividere le spese in parti uguali. «Va stabilita una proporzione», suggerisce l’esperta. «Non importa che venga fatto un calcolo matematico, o che si rispetti pedissequamente la proporzione tra i guadagni, sarà la coppia a decidere in quale misura spetti all’uno e all’altro contribuire. L’importante è che la divisione venga fatta sulla base di tre fattori».

  1. Le entrate

La regola “chi guadagna di più, versa di più” è sempre valida, ma da sola non basta.

  1. Il tenore di vita che si sceglie di avere

Bisogna mettere sul piatto il “quanto” si decide di spendere. Il ragionamento è semplice, ma non scontato: se il tuo compagno ha uno stipendio tre volte più alto del tuo e desidera giustamente concedere a sé e alla famiglia degli agi, non può pretendere che anche tu ti accolli la rata del Suv o la vacanza alle Maldive, seppure in quota parte. «Chi vuole vivere in un certo modo si assume l’onere di contribuire in misura ancora maggiore. O di dire, su certi capitoli di spesa: “A questo ci penso io”. L’importante è sempre stabilirlo prima», aggiunge Vitali.

  1. Il lavoro di cura che ciascuno svolge all’interno del nucleo familiare

C’è poi il terzo aspetto, il più delicato, e cioè la contabilizzazione del lavoro di cura. «Inutile girarci attorno. Nella maggioranza delle famiglie, purtroppo, con l’arrivo dei figli il carico di certe mansioni si sbilancia pesantemente a sfavore della donna. Parallelamente, notiamo che da questa fase in avanti è spesso l’uomo a guadagnare di più, e non perché sia più capace: semplicemente perché ha più tempo e possibilità per reperire denaro, e cioè per lavorare, curare le relazioni, dedicarsi alla propria crescita professionale», continua Monica Vitali. «Se la donna porta su di sé un carico maggiore, avrà meno tempo da dedicare alla carriera e alla crescita personale e professionale». Che fare, allora?  Imparare a contabilizzare il denaro che grazie alle mansioni che svolgiamo nell’azienda famiglia viene risparmiato. È sufficiente fare un esercizio, e cioè contare le somme che ogni mese dovrebbero uscire dal bilancio familiare se la donna non si occupasse della casa e dei figli. Si tratta di tradurre in numeri il mancato costo in ore per colf, autisti, baby sitter e badanti. «Non è un esercizio di stile, ma un modo per dare valore a ciò che si fa, e mettere il partner di fronte a questa evidenza. In molti casi scoprirete che “l’azienda” non riuscirebbe a far quadrare i conti se tutti questi servizi fossero esternalizzati. Quegli importi, anche se solo in parte, vanno aggiunti al contributo mensile di chi li svolge, si deciderà assieme in che quota».

Il regime patrimoniale

C’è anche il caso in cui la donna abbia deciso più o meno volontariamente di dedicarsi alla famiglia, lasciando il lavoro o ridimensionando la sua carriera, oppure non abbia mai avuto un’entrata propria. Questo non vuol dire che non abbia contribuito – anche se indirettamente – al bilancio familiare. È per questa ragione che l’apporto dato va valorizzato anche sotto il profilo economico, allo scopo di tutelarsi. Qualche settimana fa, abbiamo parlato di come gestire i soldi della famiglia quando l’entrata è una sola. C’è però un altro aspetto che vale la pena approfondire a questo proposito, e cioè quello del regime patrimoniale scelto dalla coppia al momento del matrimonio o dell’unione civile, che fa la differenza.

Oggi circa il 75% delle coppie italiane – dati Istat – sceglie la separazione dei beni, perché la comunione viene considerata un istituto quasi antiquato. Eppure è quello che tutela maggiormente chi è meno “forte” economicamente, il più adatto se si  vuole vedere riconosciuto il lavoro di cura nei confronti della famiglia. «Il regime di comunione dei beni realizza in sé il principio di uguaglianza tra i coniugi, anche dal punto di vista patrimoniale. La sua finalità è esattamente quella di ridistribuire il reddito all’interno della famiglia e valorizzare il lavoro domestico», premette Elena Quinti, avvocato, esperto in diritto di famiglia, delle persone e dei minori e special counsel dello studio Masotti Cassella. «Purtroppo ancora oggi molte donne non conoscono neppure il regime patrimoniale a cui la famiglia è sottoposta, né le tutele che ne discendono».

In che modo la comunione dei beni tuteli la parte debole della coppia, è presto detto. Per esempio, tornando al tema delle spese, perché tutti i beni acquisiti anche solo da uno dei coniugi dopo l’instaurazione del regime, fatte salve alcune eccezioni (per esempio le eredità e le donazioni), rientrano nella comunione. «Ciò significa che entrambi sono proprietari per intero di tutti i beni compresi nella comunione, inclusi fondi di investimento o obbligazioni, anche se acquistati da uno solo dei coniugi con i proventi del suo lavoro, o dal suo conto corrente personale. E questo perché la comunione non prevede quote, e nessuno dei due può disporre, senza il consenso dell’altro, neppure del 50%», sottolinea Quinti. Di conseguenza, se per ipotesi il partner decidesse di vendere un bene immobile o anche un bene mobile registrato all’insaputa dell’altro, questi potrebbe chiedere l’annullamento di quell’atto entro un anno dalla scoperta.

Anche in caso di separazione non si perde il diritto alla metà del patrimonio. «Il regime patrimoniale di comunione si scioglie, e i beni vengono divisi al 50%. Vengono inoltre divisi anche quei beni che la legge fa rientrare nella cosiddetta comunione de residuo, come per esempio i proventi da lavoro e le giacenze del conto corrente, a condizione che non siano stati consumati prima dello scioglimento», prosegue l’esperta.

La convenzione matrimoniale

Intanto è bene sapere che il regime patrimoniale può essere cambiato durante tutta la durata del matrimonio, con un atto notarile. Se però si preferisce la separazione dei beni, ci sono altre soluzioni. «È sempre possibile sottoscrivere una convenzione matrimoniale anche durante il matrimonio, per esempio costituire un fondo patrimoniale, in cui si destinano determinati beni, immobili oppure titoli di credito, per far fronte ai bisogni della famiglia», spiega Quinti. Per esempio, si può decidere di acquistare un immobile, e destinare i proventi della locazione alle esigenze della famiglia. Allo scioglimento del matrimonio, in mancanza di figli minori, il fondo verrà chiuso e i beni divisi tra gli ex. In caso di figli invece, il fondo sarà mantenuto fino a che l’ultimo dei figli non avrà raggiunto la maggiore età. Qui puoi scoprire di più.

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