Come resistere all’invidia sociale?

Mentre siamo nel pieno di un’altra estate all’insegna dell’invidia sociale e la maggior parte di noi si affanna a esibire esistenze ricche e meravigliose su sfondi mozzafiato, ci siamo chiesti come possiamo vincere quel sentimento così fastidioso che così spesso si impossessa di noi. Un modo per riuscirci è certamente svelare i meccanismi che sono dietro al mostrarsi. Non basta, però, se non ci proiettiamo nuovamente verso noi stessi, e non abbandoniamo lo sfinente e perpetuo confronto con gli altri.

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Giorgia Nardelli
Giorgia Nardelli

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Giornalista esperta di diritti dei consumatori e finanza personale.

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Foto di Angela Franklin

Lo scorso giugno, in Basilicata, si è tenuto un Festival sull’invidia sociale, un po’ per ridere, un po’ per far cadere un tabù. Il sottotitolo “Zero a zero”, era spiegato con una metafora calcistica: “Se io e te stiamo giocando una partita ed io segno un gol, il tuo primo pensiero non è segnarne due e dimostrare il tuo valore, ma fare di tutto per far annullare il mio”. Nulla di nuovo? Forse. Ma se è vero che l’invidia verso chi ha successo esiste da quando esiste la vita di società, e ne parlavano anche Cicerone e Tacito – l’Università Cattolica ha organizzato di recente una giornata di studi sul tema, e verrebbe da chiedersi il perché proprio oggi – è sicuramente questa l’epoca storica in cui trova la sua massima espressione. Chiunque legga questo articolo può trovarne conferma abbassando gli occhi e scrollando un social a caso: il fastidio che proverà guardando le vacanze imperdibili esibite dai suoi contatti, sono il chiaro segnale che siamo nel pieno di un’altra estate all’insegna dell’invidia sociale.

Perché l’invidia sociale fa male

Da tempo gli studiosi indagano sulla relazione tra invidia ed esposizione “forzata e continua” ai successi altrui. Qualche anno fa il quotidiano inglese The Guardian dedicava un lungo articolo a “L’era dell’invidia”, e dalle colonne del giornale Ethan Kross, professore di psicologia all’Università del Michigan, spiegava che il fatto di essere costantemente bombardati da immagini che mostrano “vite ritoccate”, dove tutto appare senza sbavature, ha su di noi un effetto mai sperimentato prima nella storia della nostra specie. In uno studio coordinato nel 2017, esaminando le reazioni di un gruppo di volontari, Kross aveva evidenziato che c’è un nesso diretto tra lo “scrollare” le vite degli altri, e l’aumento di invidia e malumore, con effetti deleteri per il nostro benessere psicofisico. Altre ricerche sono arrivate a dimostrare che l’utilizzo passivo di questi strumenti carica gli esseri umani di emozioni negative, mettendo soprattutto i più giovani a rischio ansia e depressione. 

L’importanza di guardare cosa c’è dietro

C’è un antidoto agli effetti nefasti di questa relazione “tossica” a cui ci concediamo più o meno consapevolmente? Valeria Fioretta, ghost writer e content creator, raccontava qualche mese fa in uno dei podcast di Rame come lei riuscisse a tenere a bada questo sentimento fastidioso e insidioso. «Ogni tanto ho i miei momenti, ma li soffoco», diceva spiegando che essendo “una che con i social ci lavora” è ben consapevole di quanto gli abitanti di questo secolo debbano convivere con un raffronto continuo con «vite ammirabili e sovraesposte che costituiscono costantemente una pietra di paragone». Fioretta si riferiva ai grandi influencer, più che al vicino di casa, ma il “trucco”, secondo lei, sta nel razionalizzare, capire che ogni esistenza “ammirabile” ha un prezzo, e si porta dietro costi monetari ed emotivi. «A volte mi chiedo se io quei costi lì sarei capace di sopportarli. E molte volte mi dico di no. Questo tipo di ragionamento, che a volte mi viene benissimo, altre volte mi costa un pochino più di fatica, me lo ripeto spesso e di solito mi tranquillizza».

Smontare quello che c’è dietro l’immagine di copertina, dunque. Eppure, razionalmente siamo tutti consapevoli che ciò che vediamo è solo una parte della realtà, ed è quella migliore, studiata o persino pianificata a volte a tavolino, e dietro c’è tanto e tanto altro. La vacanza da sogno del vicino di casa, l’ennesimo successo dell’ex compagna di classe, la casa milionaria di quel conoscente, che noi non potremo permetterci mai, provoca ugualmente un moto di frustrazione e malcontento. E allora il punto, forse, è anche spostare il nostro baricentro, ripuntarlo verso di noi, abbandonando quell’istinto suicida che ci porta a paragonare qualunque cosa abbiamo o non abbiamo con ciò che gli altri ostentano.

Una società immobile e demotivata

Non è stato sempre così. Un tempo, paragonarsi a chi era o stava meglio era per i più una spinta per crescere. La differenza sta nel come ci sentiamo noi: isolati e senza spinta, sfiduciati e rinunciatari. Ne parla una ricerca pubblicata dal Censis lo scorso aprile, dal titolo evocativo “La tentazione del tralasciare”, che sottolinea un tremendo paradosso dei nostri tempi: siamo la società forse più individualista di sempre, eppure abbiamo rinunciato alla competizione. «Non vogliamo correre», spiega il sociologo Giulio De Rita, autore dello studio. «L’Italia di 60 anni fa, quando l’individualismo andava affermandosi, non faceva che cercare nuovi traguardi, e pur di arrivare primi alcuni commettevano persino delle scorrettezze, oggi, invece si preferisce stare fermi. E se in passato l’invidia era figlia della lotta di classe, la spinta a dire: “voglio anche io quello che ha lui”, oggi non più. Se immaginassimo la vita come se fosse una maratona, vedremmo che la parte più consistente del gruppo non si muove. Anziché darsi da fare per arrivare da qualche parte, preferisce confrontarsi con gli altri, più spesso l’amico, il fratello, il cognato, il cugino, il pari. L’invidia sociale nasce anche da qui».

Spostare il baricentro 

Siamo appagati nei bisogni primari, dice De Rita, e persa la fame, più che sviluppare talenti restiamo ipnotizzati e passivi nella contemplazione dei successi altrui, veri o presunti non importa. Come reazione ci limitiamo al massimo a sbandierare i nostri successi, o anche solo un piatto gourmet al ristorante, e non certo per condividerne la bellezza. «Succede perché non ci sentiamo più parte della società, non ci piace quella in cui viviamo. Dalla nostra ricerca emerge che solo il 15,3% degli italiani sente di appartenere pienamente a una comunità, il 55,7% sente di avere scarso controllo sugli eventi, e il 29,5%, quasi uno su tre, sente di non incidere per davvero sul presente, anzi ha l’impressione che qualcuno decida al posto suo. A che serve sforzarsi?», riflette il sociologo. «Sogniamo ancora che qualcosa possa succedere, ma non abbiamo trovato gli strumenti per agire».
Riproiettarsi su se stessi potrebbe contribuire a superare parte del problema distogliendo l’attenzione, a non morire d’invidia. «Tra i peccati del cattolicesimo, dimentichiamo spesso di citare l’omissione. L’abbiamo sempre associata all’egoismo, al non fare del bene agli altri, ma omissione è anche dimenticarsi di sé, non mettere a frutto i propri talenti, non fare nulla per essere meglio di quello che siamo». Concentrarsi sulla promozione della nostra natura umana, potrebbe aiutarci invece a uscire dalla bolla e dalla frustrazione amplificata provocata dai social. Senza costringerci al penoso rito collettivo dell’esibizione. 

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