Cosa ci dicono sulla ricchezza i Premi Nobel dell’economia?

Negli ultimi anni, i premi Nobel per l’economia hanno rivelato nuove chiavi di lettura per comprendere le cause profonde delle disuguaglianze e della povertà globale. Dai legami tra istituzioni e prosperità, al divario di genere nel mercato del lavoro, fino all’approccio sperimentale alla povertà. In particolare, si sottolinea come le disuguaglianze non siano semplicemente il risultato di fattori geografici o culturali, ma derivino da sistemi politici ed economici che, in molti casi, sono il prodotto della storia, delle istituzioni e delle strutture di potere.

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Daron Acemoglu, Simon Johnson e James A. Robinson hanno vinto il premio Nobel per le Scienze Economiche 2024 per gli studi sulle disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri, in particolare quelli che hanno vissuto un periodo di colonizzazione, arrivando a sostenere che sono le istituzioni a condizionare la prosperità di un territorio. Sono solo gli ultimi di una serie di premi Nobel che stanno mettendo in discussione ciò che l’economia neoclassica per lungo tempo ci ha raccontato sulla ricchezza e sulla povertà. Proviamo a ripercorrere assieme le loro teorie.

La storia di Nogales

La tesi di Acemoglu, Johnson e Robinson è validata dallo studio su una cittadina diventata famosa proprio grazie a loro: Nogales è una città divisa in due. A nord c’è la Nogales americana dell’Arizona, composta da una popolazione benestante, con reddito medio alto, una buona istruzione, diritti di proprietà riconosciuti, una discreta sicurezza e la libertà di votare i loro governanti. A sud, invece, c’è la Nogales di Sonora, uno stato del Messico, dove la popolazione è principalmente povera, la criminalità organizzata impedisce la diffusione di impresa ed è guidata da politici corrotti difficili da destituire. La differenza tra queste due città che si potrebbero dire “gemelle” non è data dalla conformazione fisica o climatica: condividono lo stesso territorio e lo stesso clima, e neppure culturale essendo la popolazione, per esempio, unita da tradizioni culinarie comuni. La differenza è data dalle istituzioni che la governano. 

Nel libro “Perché le Nazioni falliscono” pubblicato nel 2012 da Daron Acemoğlu e James A. Robinson, che parte dalla primavera araba del 2010, emerge quella che i due premi Nobel ritengono la causa della povertà dei paesi come l’Egitto, ovvero, l’élite al governo che ha modellato l’economia e la società sui propri interessi. Nel paesi ricchi come gli Stati Uniti o il Regno Unito i cittadini sono riusciti a creare una società non governata da pochi, ma da un governo più ampio che tiene conto delle istanze della popolazione. Le ragioni di tali disuguaglianze sono storiche: nel 1688 in Gran Bretagna avvenne una rivoluzione che portò a un cambiamento strutturale nella politica e nell’economia che sfociò, poi, nella rivoluzione industriale. I cittadini lottarono per i loro diritti politici e una volta ottenuti li usarono per accrescere le opportunità economiche. La colonizzazione ha portato a uno stravolgimento dei territori: laddove i paesi erano più ricchi e popolosi i pochi coloni hanno usato il potere per creare istituzioni autoritarie impoverendo la popolazione. Dove, invece, i coloni erano in numero maggiore e la popolazione minore, hanno agevolato istituzioni più aperte ai diritti. 

Con i loro studi, i 3 economisti insigniti del Premio Nobel 2024 hanno dimostrato che i paesi più poveri dell’America Centrale, Dell’Asia Meridionale e dell’Africa Subsahariana non sono poveri per il clima o la conformazione fisica del territorio, o almeno non solo, ma a causa delle loro istituzioni. 

Claudia Goldin e il divario di genere

Facciamo un passo indietro e torniamo al Premio Nobel dell’Economia 2023. A vincerlo è stata Claudia Goldin «per aver ampliato la nostra comprensione dei risultati delle donne nel mercato del lavoro». 

Anche la ricerca di Goldin scava nel passato delle disuguaglianze, concentrando i suoi studi su ciò che ha svantaggiato le donne nel mondo del lavoro nel corso dei secoli. Claudia Goldin ha analizzato gli archivi e raccolto i dati di oltre 200 anni di lavoro femminile per cercare di comprendere perché ancora oggi il divario lavorativo tra uomo e donna è così ampio. Oggi le donne nel mondo del lavoro sono sottorappresentate e sottopagate. 

Con i suoi studi Goldin ha mostrato che la partecipazione delle donne al mercato del lavoro ha seguito un andamento a U: più alto nelle società agricole, in diminuzione quando si è passati alla società industrializzata per poi risalire in una società prevalentemente di servizi. Ancora una volta, le donne non sono più povere degli uomini e meno occupate per scelta o per indole, ma per un preciso disegno che le istituzioni hanno fatto della società.

Nel XX secolo i livelli di istruzione delle donne sono cresciuti, l’accesso alla pillola contraccettiva ha contribuito ad offrire nuove opportunità di carriera, e la percentuale delle donne occupate è aumentato. Nonostante questa modernizzazione il divario salariale tra uomo e donna è diminuito di poco. Secondo Goldin la disuguaglianza è conseguenza dell’educazione che influenza le decisioni lavorative quando le donne sono ancora molto giovani. Le aspettative delle ragazze sono regolate sui modelli familiari dove madri e nonne, hanno atteso la crescita dei figli per tornare a lavorare. Oggi, il divario salariale riguarda soprattutto uomini e donne con lo stesso ruolo e il divario si manifesta soprattutto dopo la nascita del primo figlio. Nel suo libro “La parità mancata” Goldin percorre la strada delle donne per conciliare lavoro e famiglia basandosi proprio sull’analisi storica e sulla discriminazione che per secoli ha impedito e impedisce alle donne di avere la parità economica. 

Le sperimentazioni di Esther Duflo e Abhijit Banerjee

Ancora più indietro nel tempo e arriviamo all’economista francese Esther Duflo, insignita del Premio Nobel per l’economia insieme a suo marito Abhijit Banerjee e all’economista statunitense Michael Kremer nel 2019. La motivazione del loro premio recita: «Per il loro approccio sperimentale volto ad alleviare la povertà globale». Ciò che hanno fatto è stato sviluppare un metodo innovativo per l’economia preso da altre discipline come la biologia. Duflo e i suoi colleghi partono da una domanda limitata e semplice e confrontano i comportamenti di due gruppi, uno di controllo e l’altro sperimentale. Questi studi chiamati “studi randomizzati controllati” sono serviti a testare delle risposte alla povertà di micro realtà. Invece di combattere la povertà come unico grande problema, il loro approccio punta a trovare soluzioni ai mali che la povertà produce attraverso il loro metodo innovativo per l’economia. 

Nel suo libro “Lottare contro la povertà” Esther Duflo affronta il tema degli aiuti economici stanziati per i paesi più poveri, dimostrando come questo approccio possa essere superato non con una soluzione unica e definitiva, ma con la conoscenza creata attraverso la comprensione dei successi e degli insuccessi ottenuti sperimentando sul territorio quelle soluzioni nate da domande precise. E, anche se a piccoli passi, sono più vicine ai comportamenti dei gruppi che non alle grandi analisi statistiche.

Cos’hanno in comune gli studi dei più recenti premi Nobel? Un’idea diversa delle ragioni che fondano la disuguaglianza tra territori, popoli, generi. Con approcci sperimentali, condotti fuori dai classici metodi economici. I premi riconosciuti non fanno altro che portare alla luce un nuovo filone di studi che può cambiare la visione stessa dell’economia, dove la ricchezza è spiegata a partire dalla validazione dei diritti e la povertà può essere fronteggiata con metodi sperimentali da adattare di volta in volta secondo i risultati ottenuti. Lo capiremo meglio affidandoci a una frase di Esther Duflo che riassume questo filone: «Dobbiamo essere consapevoli che la lotta contro la povertà è una risposta a una crisi permanente. Ha bisogno di sperimentazione, nelle due accezioni del termine: è necessario cercare senza posa nuovi approcci, ma è necessario anche riconoscere e apprendere dai propri errori per mettere in atto strategie più efficaci. Il compito degli economisti è portare un contributo a questo processo di sperimentazione creativa».

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