Facevo il possibile per disfarmi dei soldi

Giulia Fidilio nasce a Verona e si trasferisce in Inghilterra a 18 anni, mantenendosi da sola fin dal primo giorno. Studia marketing e nel frattempo fa carriera e guadagna bene. Ma i soldi le scappano via dalle mani. È sempre in rosso da qualche parte: ritira i soldi con una carta di credito per pagare i debiti dell’altra e via così. Mangia riso e fagioli per settimane. E tutto per comprare cose di cui non ha bisogno.

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Giulia Fidilio

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“Ti ricordi quando è uscito Pretty Woman? Tutte le mie amiche dicevano: ‘Vorrei che un uomo mi portasse a fare shopping così, vorrei un uomo con quella carta di credito’. Io invece volevo che a possedere quella carta di credito fossi io. Volevo essere io quell’uomo per me. Forse non è un caso che poi io abbia fatto un disastro con le carte di credito, quando sono stata in Inghilterra per tanti anni. Lì l’accesso al credito per gli studenti non è solo facile, è anche incoraggiato. E io ho fatto dei bei casini”.

Giulia Fidilio ha 44 anni e questa è la storia di come ha trasformato una sua difficoltà giovanile, quella di trattenere i soldi, in un vero e proprio lavoro. Oggi è un’educatrice finanziaria che insegna a riconoscere le trappole mentali che si trasformano in comportamenti tossici con il denaro. Ma andiamo con ordine.

«Facevo il possibile per disfarmi dei soldi»

Giulia nasce e cresce a Verona, da mamma veneta e papà siciliano.

«Ho sempre avuto un rapporto più stretto con mio padre: tutte le cose buone che so me le ha insegnate lui. Era un militare di carriera, mi ha insegnato l’importanza di essere razionali, di prendere le decisioni più efficaci, di pianificare. Ciononostante ho fatto spesso e volentieri il contrario, anzi, forse proprio per reazione a lui». 

Suo padre le dava una paghetta settimanale che lei puntualmente finiva prima del tempo, facendo debiti con i suoi stessi genitori.

“Il fatto che io non sapessi gestire la mia paghetta e mio padre alla fine tappasse i miei buchi, in un certo senso ha fatto sì che io mi aspettassi che qualcuno sarebbe arrivato a tappare i miei buchi. E ovviamente non è arrivato”.

Giulia si trasferisce in Inghilterra a 18 anni. Ci rimarrà per nove anni, mantenendosi da sola fin dal primo giorno. Studia marketing e nel frattempo entra in un mercato del lavoro completamente diverso da quello italiano, in cui fin da ragazza fa carriera e ottiene mansioni di responsabilità.

«In Inghilterra c’è una mentalità completamente diversa, per cui se tu dimostri che sei in grado di fare il lavoro, te lo danno. Qui in Italia c’è il solito inghippo per cui se non hai l’esperienza non puoi farlo, ma se non mi fai fare esperienza come farò a fare? E siamo sempre lì».

Nel mondo del retail, Giulia parte da commessa e diventa formatrice di nuova forza vendita. Nel mondo della ristorazione, parte da cameriera e diventa assistente manager di una grossa catena di ristoranti. Guadagna bene, ma i soldi le scappano via dalle mani.

«Non è neanche giusto dire che avevo le mani bucate. Io facevo il possibile per disfarmi del denaro più velocemente possibile. Considera che in Inghilterra, come in America, c’è questa mentalità del vivere da una carta di credito all’altra. Ero sempre in rosso da qualche parte: prendevo i soldi dal conto per pagare il minimo sulla carta di credito, poi li prendevo da quella carta di credito per pagarne un’altra. Mi sono ritrovata in tutte quelle situazioni imbarazzanti come transazione negata, andare a prelevare e scoprire che non c’erano fondi. D’altra parte mi sentivo legittimata perché tutti i miei amici erano come me. Considera che in Inghilterra lo studente medio ha due o tre carte di credito. Una persona che lavora può arrivare anche a quattro o cinque. Ed è normale. In Italia non te le danno con la stessa facilità e non ti aumentano il limite con la stessa leggerezza. Operazioni come ritirare da una carta per pagare il saldo di un’altra sono impensabili».

«Compravo cose di cui non avevo bisogno»

“Io ero l’emblema dell’acquisto compulsivo. Cioè compravo cose di cui non avevo bisogno, che neanche mi piacevano fino in fondo, che spesso finivo per non mettere. Lo facevo per noia, perché erano arrivati più soldi di quelli che mi aspettavo, perché mi sentivo brutta e avevo bisogno di tirarmi su, per competere con qualcuno, per impressionare qualcuno. Tutti motivi sbagliati. Tipici da manuale di acquisto compensatorio. Ovviamente poi stavo malissimo”.

«Mi ricordo in particolare un completino di pelle scamosciata, gonna e top, che era costato un occhio della testa e che tutte le volte che lo guardavo dicevo: “Ma perché?” Non l’ho mai mai indossato, è sempre rimasto lì, a memoria delle mie scelte di merda. E poi figurati, lavorando in negozi di calzature, ho toccato picchi di oltre 100 paia di scarpe».

In Inghilterra lo stipendio è settimanale, per cui Giulia se la cava con piccoli sacrifici da una settimana all’altra, magari ritardando qualche pagamento.

«Ho fatto periodi in cui mangiavo riso e fagioli. I fagioli nei sacchi da dieci chili, quelli che devi mettere a bagno 24 ore prima, che se li tiri in testa a qualcuno lo ammazzi. E quando i miei genitori mi chiamavano, dicevo di stare benissimo, che non mi serviva niente. “Va tutto alla grande!”. Morivo di fame, piuttosto che ammettere come stavo e tornare indietro».

Ma perché faceva di tutto per disfarsi dei soldi?

«Oggi lo so. Ai tempi ero una ragazza di vent’anni che non ne aveva idea. Usavo il denaro per colmare un profondo vuoto che avevo dentro di me. Tutti i miei parenti, tutti gli amici, hanno tutti divorziato e tutti malamente. Ho vissuto il divorzio di mio padre due volte».

“Quindi io sono cresciuta con questo esempio dei soldi che tiravano fuori il peggio delle persone. Ci si scannava per i soldi. Si arrivava ad avere atteggiamenti che sfociavano nella violenza, non dico fisica ma psicologica”.

A un certo punto, finalmente Giulia capisce che deve spezzare questo meccanismo.

«Adesso basta: sei grande!»

«Il turning point è stato quando sono tornata in Italia e ho cominciato a lavorare. Considera che non pagavo l’affitto perché abitavo in una casa di mio padre. Guadagnavo bene, mi pagavano l’auto, il telefono, la benzina, e nonostante ciò riuscivo a non arrivare a fine mese. E lì ho detto: “Adesso basta, adesso sei grande”. E così ho cominciato a riprendere in mano quello che mi aveva affascinato ai tempi dell’università, la psicologia del consumo e i comportamenti d’acquisto compensatori. Ho studiato economia comportamentale e mi è piaciuta tantissimo. Ho capito come prendiamo decisioni e come possiamo imparare a prendere decisioni migliori».

Giulia utilizza queste conoscenze su di sé e il cambiamento è rapido.

«Quando impari a essere più efficace nel modo di spendere e nel risparmio, in realtà i risultati arrivano abbastanza velocemente. La gente si immagina ci vogliano chissà quanti anni, invece no».

Dopo di ché decide che quelle conoscenze sul lato oscuro del marketing dovrebbe diffonderle. Così diventa un’educatrice finanziaria che aiuta le persone a prendere decisioni economiche migliori per vivere meglio.

“E quindi, se da un lato ho studiato come dovremmo manipolare il pubblico, oggi mi trovo ad aiutare il pubblico a difendersi dalla manipolazione”.

Giulia conosce il suo futuro marito attorno ai 28 anni, quando è già sulla via del cambiamento. Lui è una persona completamente diversa da lei, un abilissimo pianificatore, dotato di molto autocontrollo. E assieme a lui scopre l’efficacia delle conversazioni finanziarie.

«Oggi in famiglia abbiamo un rituale di pianificazione»

«In coppia i risultati si raggiungono molto più velocemente. Se sono chiari, si va veramente come dei treni. Noi parliamo di tutto e abbiamo sempre pianificato. Partiamo dagli obiettivi di vita e poi pianifichiamo come raggiungerli. Sappiamo sempre dove vorremmo essere tra sei mesi, tra un anno, tra cinque anni, tra dieci anni».

Giulia e la sua famiglia hanno uno strumento di pianificazione proprio in salotto. Una grande vision board con sopra gli obiettivi individuali e sotto quelli familiari.

«Ad esempio Alessandro, mio figlio ha messo l’obiettivo di fare un corso di programmazione perché vuole imparare a programmare i videogames. E mia figlia ha messo i Paesi che vuole visitare e gli animali che vuole vedere».

“E questo ci ha aiutato a uscire dalla mentalità per cui il risparmio equivale a noia, ristrettezza, non vivere, dire sempre no, togliersi le cose. E ci ha fatto entrare invece in un’ottica di: il risparmio è quello che ci permette di arrivare lì. E quindi questa lavagna è molto curata. Quando raggiungiamo gli obiettivi li togliamo, festeggiamo, ne rimettiamo di nuovi. Noi abbiamo una frase che ci ripetiamo sempre in famiglia, che è: Fatalità, quando una cosa la mettiamo sulla board la raggiungiamo sempre”.

Su quella lavagna, nel 2015, compare un obiettivo con la O maiuscola: trasferirsi a vivere alle Canarie, al mare.

«Ci abbiamo messo sette anni perché ci siamo trasferiti nel 2022. Avevamo pianificato di metterci un pochino di meno. Abbiamo temuto di mettere di più quando è piombato il Covid. E poi c’è stato un momento in cui abbiamo detto: ora o mai più, anche se non eravamo proprio dove volevamo essere. Ma Arianna avrebbe iniziato le elementari e Alessandro le medie. Era il cut-off, il momento ideale per staccarsi».

Perché proprio le Canarie?

«Vivere all’estero è la cosa migliore che ho fatto e volevo che anche i bambini la provassero»

«Noi abbiamo sempre vagliato l’ipotesi di andarcene. Per qualche anno abbiamo viaggiato e abbiamo cercato di capire quale potesse essere l’opzione più adatta. Siamo stati a Malta, nelle isole greche, alle Baleari, ai Caraibi. Siamo capitati alle Canarie per caso, ci siamo innamorati delle varie isole, abbiamo individuato quella che ci piaceva di più. E questo era il compromesso perfetto. O meglio, il posto perfetto. Con standard europei, sanità e organizzazione superiore all’Italia per molti versi, un clima da Caraibi. Ma anche tanti altri vantaggi: un maggiore contatto con la natura, vivere all’aperto tutto l’anno, un’apertura mentale incredibile perché in classe il 70% dei bambini, è straniero: polacchi, ungheresi, ucraini, irlandesi, inglesi, italiani, francesi, finlandesi. Un mix incredibile».

Ma chiaramente all’origine della scelta ci sono state anche valutazioni di ordine economico.

“Qui ci possiamo permettere una casa e una vita che in Italia non potremmo. Posso lavorare meno e mantenere lo stesso tenore di vita. Posso avere una casa vista oceano che in Italia non ci potremmo permettere. C’è anche qualche agevolazione a livello di tassazione: questo non cambia per le nostre società che rimangono in Italia, ma cambia per noi come persone fisiche. E io ho aperto la partita Iva anche qui”.

Per un obiettivo così, era fondamentale che fossero tutti d’accordo.

«Quando abbiamo deciso di venire a vivere qua, abbiamo preparato i ragazzi per qualche anno e abbiamo spiegato che non sarebbe stata la vacanza, che non sarebbe più stato come quando vieni qui 15 giorni, vai fuori tutte le sere a cena. Avremmo vissuto qui, avremmo lavorato qui, avremmo avuto degli impegni qui e avremmo vissuto come in Italia. Insomma, abbiamo cercato di dargli una visione più completa possibile e soprattutto abbiamo chiesto loro se si sarebbero visti qui. Arianna non era ancora nata perché è nata nel 2016, ma Alessandro è cresciuto con questa cosa e ha sposato questo progetto. Se avessi visto una totale chiusura da parte sua sarei stata quantomeno aperta a capire perché e se si poteva cambiare: non volevo imporglielo, ecco. 

Non solo i ragazzi sono d’accordo ma questo progetto diviene uno strumento per regolare i loro capricci e desideri.

“Quando magari diventavano un po’ esosi nelle richieste, potevamo dir loro: ‘Sì, possiamo fare anche questa cosa. Solo che allontana il nostro trasferimento al mare’. E allora da soli si auto regolavano”.

Ma come si fa a passare da un obiettivo di vita così complesso e ambizioso a un piano esecutivo vero e proprio?

«Abbiamo fatto il processo a ritroso, quindi abbiamo detto se entro questa data vogliamo aver trovato la casa, cosa dobbiamo fare? La parte più buffa è stata il finale. Perché se prima avevamo degli obiettivi spaziati nell’arco di mesi, l’ultimo anno ogni settimana avevamo una piccola cosa da fare. Era pieno di cose banali come guardare la mappa, trovare la scuola più vicina, controllare le recensioni di quella scuola. Con due figli e due cani si è dovuto pianificare al dettaglio. E io ce l’avevo appesa sul frigo e mi ricordo che tutti quelli che mi venivano a trovare mi dicevano “Ma non ti mette ansia?”. E io dicevo: “Al contrario, mi rende molto tranquilla sapere che ogni settimana ho solo una cosa che devo fare per raggiungere l’obiettivo”.

E adesso che la cosa per cui hanno lottato, riso, e pianificato per sette anni è stata raggiunta, che ne è della vision board?

“Pian pianino abbiamo cominciato a mettere obiettivi un po’ più morbidi: chessò, fare più sport, stare più tempo insieme, perché loro finiscono la scuola prima. Io ho rallentato molto i ritmi lavorativi e quindi stiamo trovando insieme nuovi obiettivi”.

La Giulia che non riusciva a trattenere i soldi è lontana

«Io ne sono completamente uscita. Se sono in un periodo in cui mi sento vulnerabile, sto due volte più attenta perché so che è lì che potrei ricadere in errore e quindi ho messo in atto diciamo dei sotterfugi. Ad esempio, ho il mio budget mensile della spesa pazza. Mi sono definita un budget intorno ai 150€ ogni mese, che so che se vedo una cosa che mi piace particolarmente la posso comprare. Io la chiamo la spesa impulsiva pianificata».

Con i suoi figli sta cercando di evitare gli stessi errori che sono stati fatti con lei. Di soldi non si parla mai in termini di ricatto o rivalsa. Soprattutto non li ha abituati a una paghetta che arriva come rendita per il sol fatto di esistere.

“Io penso che la paghetta possa andare bene, ma si riveli un’arma a doppio taglio. E soprattutto penso che la paghetta non vada assolutamente data per cose che i figli dovrebbero comunque fare. Tenere in ordine la camera a rifarsi il letto, aiutare in casa… In famiglia tutti devono contribuire. Io ho ovviato così. Per esempio: oggi ai miei figli dò la paghetta per fare delle attività extra come occuparsi della raccolta differenziata. È una cosa che comporta impegno, fatica e che ci mettono un po’ a fare. E se lo fanno tutte le settimane gli riconosco qualcosa”.

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