Il costo che pago per essere non-madre - Rame

Il costo che pago per essere non-madre

Anna Cupani ha 41 anni, vive e lavora a Londra. Il suo primo passo nel mondo del lavoro le mette subito davanti agli occhi il fatto che, in quanto donna, per lei ogni cosa sarà molto più difficile. Ma non solo: in questo contesto di sottile e continua discriminazione, Anna si rende conto che un trattamento speciale è riservato alle non mamme, dalle quali ci si aspetta che, non avendo bambini a carico, siano più disponibili a lavorare di più e a coprire i turni di colleghi.

Tempo di lettura: 9 minuti

Anna Cupani

Ascolta il podcast della puntata:

“Se io chiedo la flessibilità sul lavoro devo giustificarla un milione di volte, se invece la chiede la mia collega perché deve stare dietro ai bambini, la questione cambia. L’aspettativa per una persona della mia età è che ovviamente ci siano dei bambini e che io me ne prenda cura. E quindi nel momento in cui reclamo altri interessi anche professionali, c’è sempre quel momento di esitazione.”

Di quanto la maternità, ancora oggi, impoverisca le lavoratrici abbiamo parlato spesso. Meno di frequente ci siamo imbattute in un racconto onesto e sincero sull’essere non-mamme nella nostra società. Anna, tempo fa ci ha scritto in una mail: «Il rovescio dello stereotipo delle “super mamme” che sanno fare tutto è quello delle non-mamme egoiste che non hanno niente nella vita a cui pensare e dalle quali ci si aspetta si rendano disponibili a coprire le guardie mediche a Natale, a portare le classi in gita scolastica, a rimanere in ufficio in serata per finire la presentazione per domani, di cui sono state avvisate all’ultimo momento. Il tutto senza comunque venire riconosciute professionalmente».

L’attenzione verso la sostenibilità

Anna Cupani ha 41 anni, è originaria di Pordenone, ma da molti anni vive in Inghilterra. Lavora in Università, dove si occupa di creare connessioni tra ricercatori e aziende esterne. Nata in una famiglia benestante, i suoi genitori la crescono con l’idea che nulla vada sprecato.

«Non tanto perché non ce lo possiamo permettere ma perché in generale non bisogna inquinare e sprecare energie. Mi ricordo che a mia mamma sentire l’acqua che scorreva in bagno senza motivo le dava proprio fastidio. Ed è una cosa con la quale sono cresciuta anche io: quando, per esempio, sentivo la mia coinquilina che lavava i piatti e faceva scorrere l’acqua un po’ a caso, la reazione era proprio quella di dire: “Possiamo chiuderla, adesso non ci serve”».

Questa sensibilità verso lo spreco di risorse si accompagna a un’attenta gestione del denaro.

«Mio papà aveva un quadernino e ogni sera si segnavano tutte le spese della giornata. Era un’operazione che veniva fatta con grande tranquillità; non esisteva che uno per sbaglio spendeva 100.000 lire e non se ne accorgeva».

Un’educazione che le è utile, una volta adulta.

«Questa attenzione all’acquisto sensato me lo porto ancora dietro e mi è tornato molto utile negli ultimi anni dove ho traslocato diverse volte. Perché, inevitabilmente, molti traslochi significa non attaccarsi alle cose, imparare a essenzializzare e a ridurre al minimo».

Anna è molto brava a scuola e ottiene ottimi risultati. Così dopo il Liceo, si laurea in Chimica, e poi frequenta un Master. Per tutti gli anni di studio, sono i genitori a mantenerla. Ma non appena entra nel mondo del lavoro, stacca il cordone ombelicale dei finanziamenti.

«Dal momento in cui ho avuto un lavoro, per me è stato fuori discussione che quello era il mio lavoro e che mi sarei mantenuta con quello. Non volevo accettare condizioni lavorative che mi costringessero a fare di nuovo affidamento sui miei genitori. Sentivo di avere le capacità e le risorse per farcela da sola, e volevo raccogliere un po’ i miei risultati».

Il suo primo lavoro, come borsista all’interno dell’Università, la mette di fronte all’importanza di capire un contratto e le condizioni economiche che vi sono scritte.

«Era un contratto che non ha versato contributi di nessun tipo, quindi io non esisto per l’INPS italiano, nonostante abbia lavorato e lo abbia fatto con dei fondi che venivano dal Ministero della ricerca».

Il prezzo di essere donna

Ma soprattutto, il suo primo passo nel mondo del lavoro, le mette davanti agli occhi il fatto che, in quanto donna, dovrà valutare le opportunità che le si parano davanti diversamente.

«Lavoravo in un gruppo di ricerca con una professoressa che credeva moltissimo in me e avrebbe voluto che facessi il dottorato con lei. In Italia, per accedere al dottorato, bisogna fare un esame. In contemporanea, io avevo anche fatto diversi colloqui all’estero. Mi ricordo che quando mi fecero l’offerta dall’estero io subito accettai e quindi non andai a fare quel famoso esame. Quando lei lo scopri, mi fermò in corridoio in dipartimento e mi disse: “Ma tu non puoi fare così! Nella vita hai sempre bisogno di un piano B e di un piano C, soprattutto perché sei una donna”. Credo sia stata la prima volta che esplicitamente qualcuno mi facesse notare che, essendo donna, per me sarebbe stato tutto più difficile».

A quel punto, Anna si trasferisce in Belgio e ancora una volta si scontra con una burocrazia che non riconosce il giusto prezzo del suo lavoro.

“Il primo anno in cui ho lavorato all’estero ero sottopagata: a causa di un errore amministrativo che non si è mai chiarito sono stata pagata 3/4 di quello che risultava da contratto. E anche lì c’è voluta una battaglia lunghissima per veder riconosciuto che c’era una discrepanza tra il contratto e quello che mi arrivava in busta paga ogni mese.”

Ma la questione economica non è la sola a stupire Anna. A distanza di anni finalmente capisce ciò che la sua professoressa intendeva quel giorno in corridoio e cioè che la sua vita lavorativa sarebbe stata costellata da una fatica improba.

«Più volte mi sono trovata in contesti nei quali si stanno prendendo delle decisioni e le persone attorno al tavolo che dicono: “forse abbiamo bisogno di avere i decision maker”, quando in realtà tutte le persone che contavano erano già presenti al meeting. Quello che all’epoca facevo più fatica ad ammettere era proprio il non venire presa sul serio e quindi dover ripetere la stessa richiesta tre volte prima che venisse ascoltata, mentre quando a farla era il collega uomo improvvisamente la controparte rispondeva».

“Molte persone della mia generazione sono cresciute con l’idea che ti impegni, studi, ti dai da fare e otterrai quello che vuoi, finché si arriva al famigerato soffitto di cristallo. Per me ci sono voluti mesi per capire che cosa stesse succedendo ed è stata una collega a dirmi che quelle discriminazioni non avevano niente a che vedere con le mie abilità, quanto con l’ambiente. Per un po’ di tempo ho fatto fatica ad accettare che effettivamente ci fossero degli ostacoli strutturali che non avevano nulla a che vedere con la mia abilità.”

Non solo: in questo contesto di sottile e continua discriminazione verso le donne, Anna si rende conto che un trattamento speciale è riservato alle non mamme. 

«L’assunto è che siccome non ho altre persone di cui occuparmi, sicuramente posso occuparmi di altre cose. Mi è capitato tantissime volte di dover mettere in piedi una presentazione all’ultimo minuto e di dover sostituire dei colleghi. E chissà perché queste richieste arrivano sempre a me».

Anna ha sempre fatto molta attenzione a non far sì che la sua maggiore elasticità venisse usata contro le colleghe, proprio perché crede nelle battaglie collettive. Ma la verità dei fatti è che le sue colleghe con figli non hanno fatto più carriera di lei. «Stiamo correndo tutte una gara truccata», ci aveva scritto Anna nella sua email. «Penso a come questa mentalità non faccia altro che portarci a dividerci ancora di più, disperate per le briciole di diritti che dovrebbero essere per tutti e tutte». Queste discriminazioni hanno chiaramente un risvolto nella sfera economica.

«A me è capitato nel team di vedere la collega che da tre anni lavora in quel ruolo che chiede un aumento di stipendio al quale viene negato e il collega uomo che è arrivato da meno di un anno che chiede un bonus e lo ottiene. Quando io chiedo di negoziare lo stipendio, mi rendo conto che a volte viene percepito come un po’ strano».

La potenza dell’economia del dono

Dopo 7 anni in Belgio, Anna si trasferisce in Inghilterra. Dove ha modo di constatare che la stessa persona a seconda del contesto può essere discriminata oppure privilegiata. In quella fase il suo privilegio è avere un passaporto italiano.

«L’Inghilterra era in quella fase caotica in cui stavano ancora decidendo che Brexit volevano e io ho avuto l’enorme privilegio di arrivare qui da cittadina comunitaria. Non ho mai dovuto preoccuparmi del visto o di tutta la burocrazia legata all’immigrazione. Io ho molti amici con passaporti meno fortunati del mio e vedo quanto sia difficile per loro. E questa è una delle cose che ritengo essere un’ingiustizia del modo in cui la nostra società è organizzata».

Spesso concepiamo il privilegio come un qualcosa di cui vergognarci, qualcosa da nascondere, da mettere sotto il tappeto. Per Anna, il privilegio è qualcosa che ti da la responsabilità di aiutare gli altri. E in quanto tale ha il potere di unirci, di aiutarci a stringere relazioni non di dividerci.

«Io, per esempio, ho supportato questi amici nelle spese per i visti e allo stesso modo anche a me è capitato in alcuni periodi di transizione lavorativa in cui ero in difficoltà di avere delle persone che senza che lo chiedessi mi aiutassero».

“È una cosa che si fa molta fatica ad accettare ma per me l’idea che verrà il momento in cui restituirò a qualcun altro mi aiuta a far pace con il privilegio. Al di là dello scambio, la gente comunque è molto contenta di poter aiutare in questi termini. Alla fine si cementa una relazione anche attraverso queste cose e quindi dover ricreare una comunità richiede anche di supportarsi in questo modo.”

Questa catena di relazioni per cui chi è più privilegiato aiuta chi lo è meno, che a sua volta aiuterà altri ancora, è il modo con cui Anna ha fatto pace più in generale con il privilegio di essere nata in una famiglia che le ha dato il lusso di non pensare ai soldi fino a dopo la laurea.

«L’idea di restituire questo investimento che è stato fatto su di me è uno dei motivi per cui lavoro in Accademia. Quindi sì, la contabilità ci sta per alcune cose però mi piace molto questa idea che riceviamo quello che ci serve quando ci serve e restituiamo ad altri quello che serve a loro quando serve a loro».

Per lungo tempo, Anna ha pensato che sarebbe invecchiata in Inghilterra, ma ultimamente si riscopre sempre più povera, in una città sempre più costosa.

«Gli stipendi del settore pubblico in Inghilterra sono indietro rispetto all’aumento di inflazione degli ultimi 15 anni. Se io adesso avessi lo stipendio che avevo 15 anni fa sicuramente non sarei qui, però confrontato con altri stipendi, io dovrei prendere 20.000 sterline in più all’anno. Alcuni sacrifici sono stati fatti perché sentivo di poter crescere professionalmente, di imparare nuove cose e di essere in un ambiente internazionale. Naturalmente, nel momento in cui questa spinta verrà un po’ a esaurirsi credo che probabilmente mi sposterò e, ultimamente, anche l’aspetto finanziario è entrato in questo quadro con un po’ più di importanza. Io ho ancora 31 anni di lavoro e nel momento in cui mi sono resa conto che una casa da sola qui non riuscirò mai a comprarla, mi sono detta: “Ok, nel momento in cui dovessi smettere di lavorare, come campo?” E perciò, accantono con il pensiero che non ho alcuna protezione».

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