Il privilegio di una famiglia dove tutti aiutano tutti
Sumaya Abdel Qader è nata a Perugia 45 anni fa. Oggi vive a Milano, città di cui è stata consigliera comunale per cinque anni. Ha tre figli, tre lauree e un dottorato in Sociologia in corso. Molto di ciò che ha ottenuto lo deve alla rete familiare. Eppure, dopo tre lauree, Sumaya fatica a trovare un posto fisso e a tempo pieno. È musulmana, porta il velo, ma soprattutto è donna e anche madre. «E qui in Italia bisogna scegliere tra famiglia e lavoro».
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“Ho vissuto in una famiglia dove tutti aiutavano tutti. Non c’è un cugino che non sia stato aiutato da uno zio o un altro cugino o un nonno e così via. Ho decine e decine di cugini: tutti dovevano essere messi nelle condizioni di crescere economicamente e spiritualmente. Tutta la famiglia si mette al servizio della famiglia. Questa cosa l’ho vissuta sempre molto bene, perché avevo la certezza che anche se cadevo c’era qualcuno che mi tirava su. Sapevo di essere protetta da un sistema familiare”.
Sumaya Abdel Qader è nata a Perugia 45 anni fa. Oggi vive a Milano, città di cui è stata consigliera comunale per cinque anni. Ha tre figli, tre lauree e un dottorato in Sociologia in corso. Ha ottenuto molto, nella vita, e lo deve in parte alla rete familiare, che è stata una leva determinante per la sua emancipazione. Eppure, sono gli obiettivi mancati a farla riflettere sul modello sociale ed economico in cui è immersa.
Il sistema delle reti familiari
Il papà di Sumaya arrivò in Italia dalla Giordania quando aveva 18 anni per studiare Medicina. Gli studi glieli pagava suo fratello: «Loro in famiglia sono sette e ogni fratello ha fatto studiare il fratello più piccolo, inclusa l’unica sorella, che si è laureata in Matematica. Sono tutti ingegneri, medici… e mia zia matematica».
Il sistema familiare di cui parla Sumaya affonda le sue radici nell’Islam, più precisamente nella diaspora palestinese che a partire dal 1948 trasforma le famiglie e le comunità in reti di individui mobili, sparsi nei cinque continenti. Ma è un sistema che appartiene agli esseri umani in quanto tali.
È grazie a una rete familiare di questo tipo, per esempio, che abbiamo potuto beneficiare delle scoperte della due volte premio Nobel Marie Curie. La quale strinse un patto con la sorella Bronia: Marie avrebbe lavorato come governante per permetterle di studiare medicina a Parigi e la sorella avrebbe poi ricambiato il favore. Così, nel 1891, Bronia disse a Marie che era il suo turno: poteva raggiungerla a Parigi. Il 3 novembre Marie entrò da studentessa alla Sorbona dove, 15 anni più tardi, sarà la prima donna a insegnare.
Ma torniamo a Sumaya. Dei primi anni di vita, fino alle medie, Sumaya ha una serie di istantanee. Suo padre studiava, sua madre, conosciuta in Italia e figlia di palestinesi emigrati in Kuwait, si occupava di crescere lei e i suoi 4 fratelli, nati uno dopo l’altro.
“Ricordo mia mamma, incinta della mia terza sorella, che aveva voglia di pomodori. Io le dicevo di comprarli ma lei mi rispondeva che costavano troppo”.
Ci vorranno un bel po’ di anni prima che il padre di Sumaya possa esercitare la professione di medico, perché per iscriversi all’albo è necessario che l’Italia faccia un accordo con la Giordania. Nel frattempo, la famiglia vive grazie ai piccoli commerci con il paese d’origine.
«All’avvicinarsi della festa di Ognissanti, in un piazzale della città, arrivava il Luna Park. La scuola ci regalava i buoni per i giochi. Ricordo che c’erano alcuni compagni che non andavano al Luna Park, chissà perché, e mi regalavano i buoni. Io aspettavo quel giorno con grande entusiasmo perché potevo salire su tutti i giochi possibili e immaginabili. Quindi, già da molto presto, ho percepito il valore dei soldi e il peso che hanno anche sulla nostra felicità».
Lo studio come leva per l’emancipazione
Queste ristrettezze sono solo questione di tempo. La laurea in Medicina promette l’emancipazione sociale ed economica della famiglia. Ecco perché i genitori di Sumaya insistono, con tutti i loro figli, sull’importanza dello studio.
«Mio padre ha sempre spinto tutte noi figlie, quattro femmine e un maschio, a studiare. Per lui noi dovevamo diventare tutti medici, ingegneri… Ci diceva sempre che non avremmo mai dovuto dipendere da un uomo nella nostra vita».
Dopo la maturità, Sumaya si iscrive a Biologia. È ancora una studentessa del primo anno quando decide di sposarsi per raggiungere a Milano il suo partner, che sta studiando da odontoiatra, e vivere con lui. Sumaya ha sempre affiancato gli studi a dei lavoretti, fin da quando aveva 16 anni. Ma l’università gliela paga ancora suo padre. «Perché lui ci teneva tantissimo. Era l’obiettivo che non dovevamo fallire. Ecco perché ha aiutato tutti i suoi figli a laurearci».
Se suo padre ci mette i soldi, sua madre le regala il tempo e la libertà mentale per potere continuare a studiare pur essendo divenuta madre a sua volta.
“Mia madre negli anni ha fatto di tutto perché noi figlie potessimo avere un supporto e un sostegno per studiare e per lavorare. Per esempio, io ho avuto dei figli durante il mio percorso di studi e avevo difficoltà a gestire gli esami, i figli e i lavoretti che facevo. Lei veniva molto spesso ad aiutarmi, specialmente durante le sessioni d’esame oppure quando dovevo fare laboratorio”.
Lo stigma di essere donna e velata
Sumaya dopo la laurea in Biologia ne prende un’altra in mediazione linguistica culturale e poi un’altra ancora in sociologia. Eppure fatica a trovare un lavoro fisso e a tempo pieno. La motivazione è complessa.
Da una parte si accorge di subire una forma di discriminazione. «Sono musulmana, porto il velo e mi è capitato che non venissi assunta per questa motivazione. Il difficile nel difficile».
Dall’altra parte è consapevole di vivere ciò che vive la maggioranza delle donne italiane. «Ho percepito spesso di essere considerata meno di colleghi uomini, perché, a parità di lavoro fatto, loro venivano pagati di più. Anzi, mi sembrava di lavorare molto di più e di essere pagata molto di meno. Se vedo certi miei colleghi che hanno fatto il mio stesso percorso di studi e sono divenuti manager di aziende, mi chiedo sempre dove ho sbagliato, perché non ci sono riuscita. A volte mi colpevolizzo per non essere stata capace. Poi penso che forse no, abbiamo un sistema che privilegia gli uomini bianchi ed etero. Le donne, in generale, vengono svantaggiate. Le donne che hanno un background culturale diverso, professano un’altra religione o sono nate in una famiglia immigrata, poi, sono ancora più svantaggiate. Questa è la mia grandissima paura rispetto ai miei figli, in particolar modo le ragazze».
A ciò si aggiunge l’ulteriore definitivo tassello: aver voluto costruire una famiglia.
“Qui bisogna quasi scegliere tra la famiglia e il lavoro, perché non c’è una struttura, né familiare né sociale né di servizi, che aiuta la donna a emanciparsi. Qui devi cavartela con l’asilo nido, con la babysitter, con il baby parking e tutti i servizi a pagamento che rendono tutto molto più difficile”.
Il paradosso dell’emancipazione
La rete della sua famiglia di origine che, da un certo punto di vista, la rende privilegiata rispetto a tante sue coetanee italiane, non è sufficiente a permetterle di compiere quell’ultimo passo verso l’emancipazione. A trovare cioè un lavoro all’altezza di ciò che ha studiato.
«Noi che abbiamo vissuto qui, lontani dal blocco familiare più grande, abbiamo sofferto molto la mancanza diretta di questo modello familiare, perché abbiamo dovuto cavarcela da soli, senza contare sull’aiuto che le altre hanno avuto rimanendo nel paese di origine».
Il confronto con le sue parenti in Giordania è doloroso. Non che siano tutte emancipate. Ma chi ha voluto studiare o lavorare, ha potuto contare sul sostegno di una sistema sociale che in Italia non esiste più.
“Le mie cugine che sono in Giordania hanno la nonna, la zia, la vicina di casa, l’amica. Tutte lavorano senza porsi il problema di chi va a prendere il bambino all’asilo. Io invece ho dovuto lottare per anni sul chi va a prendere il bambino asilo, rinunciando a certi lavori a tempo pieno, perché altrimenti non conciliavo con i tempi della famiglia. Mia sorella che abita in Giordania, ad Amman, e lavora tante ore, riesce a farlo grazie alla sua vicina che non lavora e si prende cura dei figli, quindi lei sta tranquilla”.
E così, Sumaya, nonostante sia nata in un contesto culturale fortemente aperto, si trova a replicare la dinamica di una famiglia tradizionale, con un marito che fa il medico e guadagna lo stipendio principale, e lei che cresce i figli e produce un secondo stipendio, di appoggio.
«Il mio è sempre stato un lavoro secondario rispetto al suo. Secondario nel senso di: meno retribuito, meno stabile, sempre precario e a tempo determinato. Determinatissimo, direi. Se fossi stata io il medico e mio marito il precario, avremmo avuto i ruoli invertiti, ne sono certa. Ho un marito assolutamente dalla mentalità aperta».
E infatti, quando lei decide di farsi coinvolgere dalla politica, divenendo consigliera comunale a Milano, benché l’impegno totalizzante non abbia un adeguato corrispettivo economico, con suo marito fa un patto.
«Era una consapevolezza condivisa che non avrei avuto più tempo, non avrei avuto più orari fissi, non avrei avuto più quella concentrazione sulla casa che avevo prima. E in quei cinque anni mio marito si è riorganizzato per avere cura lui dei figli, per stare di più in casa, per pensare lui alla cena visto che la sera tornava prima di me, per lavare i piatti e riassettare la casa. Lui ha sposato sempre le mie scelte, le ha sempre sostenute e non ha mai pensato di metterle in discussione».
Questa è una eredità culturale importante che lasciano ai figli: l’idea che uomo e donna all’interno della famiglia valgano uguale, indipendentemente da quanto guadagnino.
L’idea di futuro
Come hanno visto fare nelle loro famiglie di origine, Sumaya e suo marito insistono molto sull’importanza dello studio con i loro figli. Ma con una connotazione leggermente diversa rispetto all’enfasi sulle professioni ben remunerate.
«Nella famiglia di mia madre e mio padre era molto forte la spinta allo studio. Però io ho maturato una mia idea che condivido pienamente con mio marito. Che lo studio non è tanto importante per avere un certo tipo di lavoro, con un guadagno maggiore. Ma per la conoscenza e per la capacità di avere gli strumenti che ti permettono di leggere il mondo. Non ho mai collegato gli studi alla retribuzione».
Oggi il modello altruista dentro cui Sumaya è cresciuta sta scomparendo, persino nella sua cultura d’origine, sempre più condizionata dai modelli individualistici occidentali. Eppure lei ha tenuto fede al suo ruolo nella rete familiare, restituendo a sorelle e cugini ciò che ha avuto prima di loro.
“Ho dato qualsiasi forma possibile di aiuto, dall’ospitare in casa al pagare gli studi fino al prestare soldi per avviare un’attività. Nessuno fa i conti in tasca a nessuno, nessuno tiene la contabilità di nessuno, si dà ciò che si può dare, e chi può restituire restituisce. Ma c’è anche chi non può restituire, perché non è nelle condizioni di farlo”.
Come sempre, per il finale, chiedo a Sumaya di puntare lo sguardo al futuro. Dove vede un obiettivo molto chiaro, che però sembra essersi di colpo allontanato:
«È estremamente difficile vivere a Milano. Noi siamo in affitto, vorremmo crescere, comprar casa oppure prendere in affitto una casa un po’ più grande: i nostri tre figli hanno una sola camera. Ma non si riesce a trovare un affitto che abbia un prezzo onesto, e anche i prezzi delle case in vendita sono qualcosa di oltre la capacità di una famiglia media, pur con due stipendi. Ho visto negli anni crescite incredibili di prezzi. Io vivo in un quartiere che era considerato malfamato, mentre oggi è diventato uno dei quartieri più fighetti di Milano, dove i prezzi sono schizzati alle stelle ed è impossibile comprar casa o affittarne un più grande».
Sul piano personale, la sfida è ancora più complessa. Ma non si può certo dire che Sumaya non abbia le idee chiare.
“Io ho il piano A, B e C. Il piano A è entrare nel mondo accademico, lavorare lì non solo come ricercatrice, ma anche come docente. Almeno questo è il sogno dei sogni. Ma entrare nel mondo accademico è estremamente difficile e complicato. In più, se se sei portatore di specificità, diventa ancora più complicato. Dopodiché, se non va bene lì continuerò quello che faccio adesso, ovvero scrivere libri e fare formazione. Il piano C è ritirarmi a sfornare torte e fare dolci da vendere. Da sempre coltivo una passione non troppo segreta, dal momento che ho un blog, per la cucina di origine dei miei genitori, che faccio sposare con la cucina italiana. Inutile dire che in tanti tifano per questa terza strada”.