L’eredità nascosta che mi ha lasciato mio padre

Valeria Fioretta è una figlia finanziariamente educata. Suo padre parla liberamente di soldi in casa, la porta fin da bambina alle case d’asta e la fa stare a tavola in mezzo a persone che parlano di soldi, investimenti, aste, pignoramenti. Per lungo tempo, Valeria non riconosce le lezioni apprese da suo padre. Dopo la sua morte, però, si riscopre intenta a comporre un puzzle segreto: l’eredità che lui le ha lasciato, che non è tanto il denaro, quanto un certo modo di parlare e di pensare il denaro.

Tempo di lettura: 11 minuti

Valeria Fioretta

Ascolta il podcast della puntata:

“Mio papà non riusciva a capacitarsi del fatto che io, la sua unica figlia, che aveva studiato all’estero, che aveva tutti i numeri per fare delle cose pazzesche, poi di fatto, quando aveva 30 anni percepiva uno stipendio che a malapena le consentiva di vivere e aveva una casa solo perché la mia famiglia aveva contribuito a farmela acquistare. Tra l’altro io sono sempre stata super privilegiata dal punto di vista professionale. Non sono stata disoccupata un giorno nella mia vita, sono sempre stata a libro paga di aziende oneste. Quindi, pur in una fase storica sfortunata, rappresento comunque un caso privilegiato”.

Scommetto che molti di voi, in questo dialogo generazionale, sentono di potersi accomodare come fosse casa loro, riconoscendo un modo di ragionare e di immaginare il futuro piuttosto comune nella generazione nata dopo la Guerra. Ma c’è qualcosa che i trenta-quarantenni di oggi possono imparare dai loro padri, così lontani per tanti aspetti?

Due visioni del mondo inconciliabili

Valeria Fioretta ha 41 anni ed è una consulente freelance nell’ambito del marketing e della comunicazione. Lei e suo padre hanno sempre guardato il mondo da due postazioni diverse nella linea del tempo.

“Io non ho mai conosciuto quel famoso meccanismo per cui lavoro, guadagno e quindi il mio benessere aumenta in maniera meccanica. Non so neanche come ci si senta a credere che questo sia possibile”.

«Mio papà questa cosa la capiva perché era una persona molto intelligente e non viveva su Marte. Eppure non riusciva a concepire che anche io, la sua unica figlia, fosse caduta in quella spirale lì. Di questa cosa non se ne faceva una ragione. Cioè lui mi voleva top manager, non per la sua soddisfazione personale, ma proprio perché credeva nel meccanicismo, per cui se fai una cosa ne ottieni un’altra. Secondo me pensava: “Ma allora perché l’abbiamo fatto? Perché lo fai ragazza mia, potevi andare a fare un lavoro meno intellettuale, più manuale, probabilmente saresti meglio e guadagneresti anche di più”».

Dopo la morte di suo padre, però, Valeria si riscopre intenta a comporre un puzzle segreto: l’eredità che lui le ha lasciato, che non è tanto il denaro, quanto un certo modo di parlare e di pensare il denaro.

«Mio papà non era una persona ossessionata dai soldi, era una persona che osservava il prezzo delle cose. Io ho ricordi di lui che guardava Televideo, la cosa più lontana dalla mia sensibilità. Io lo prendevo in giro insinuando che leggesse l’oroscopo. Lui, che monitorava i titoli in Borsa, mi rispondeva: “Sto guardando dove vanno i tuoi soldi, per quando io sarò vecchio e non ci sarò più”. E questo tipo di ragionamento mi congelava».

L’infanzia tra le case d’asta

Dipendente di un’impresa chimica del gruppo Montedison, il papà di Valeria aveva trasformato la passione per gli oggetti preziosi in un piccolo business di compravendita. Col tempo l’attività era andata talmente bene che aveva deciso di licenziarsi e di dedicarsi full time a essa.

“Ho visto che cos’è la passione quando si lavora. Ecco, quella cosa lì l’ho imparata osservando direttamente il mio papà”.

Valeria frequenta le case d’asta fin da bambina, osserva il battitore scandire la vendita di quadri e i compratori scannarsi fino all’ultimo euro. Per lei parlare di soldi era qualcosa di assolutamente normale.

«Forse parlavo di denaro in una maniera un po’ troppo disinvolta per avere dieci, undici anni. Mi ricordo nei primissimi anni ’90, andavano di moda Swatch e io ne avevo una quantità mostruosa. Non mi ricordo neanche da quali canali arrivassero. Io arrivavo a scuola con degli orologi spropositatamente cool, magari da collezione, che non avevano senso al polso di un bambino e quando la maestra mi chiedeva da dove provenisse, io dicevo: “Sì, è da collezione, costa tot”. Perché mio papà non aveva avuto il buon gusto di tacermi quel tipo di dettaglio e io forse non avevo a mia volta la maturità per autocensurarmi».

Quando suo padre avvia l’attività di compravendita, le condizioni economiche della famiglia, che erano sempre state buone, cambiano in meglio. Continuano ad abitare nella stessa casa e a indossare gli stessi marchi, «ma il modo in cui venivano spesi i soldi per fare cose belle è radicalmente cambiato».

“Per me è sempre stato automatico associare il denaro alla possibilità di fare cose divertenti, cose che davano soddisfazione. Ho sempre pensato che i soldi avessero un ruolo molto rilevante nel determinare la nostra felicità e non mi sono mai permessa di pensare per un attimo ai ‘due cuori, una capanna’. Non l’ho mai creduta quella storia e non la credo neanche adesso”.

Valeria studia Economia aziendale. Ha il privilegio di non doversi mantenere durante l’università e nessun problema di convivenza con questo privilegio.

La scoperta di quanto costa il sol fatto di esistere

«Io sono stata economicamente dipendente dalla mia famiglia per un lungo periodo. Non sono mai stata il tipo di studentessa che lavorava per mantenersi, ho anche potuto fare due anni di studi all’estero sovvenzionata dalla mia famiglia, però io mi sento a mio agio con questa cosa e non la vedo come uno stigma del quale vergognarmi. Il mio modo silenzioso di negoziare questo tipo di trattamento è che sono sempre stata una studentessa ligia, puntuale nei tempi».

Valeria inizia a lavorare nel 2006, l’anno delle Olimpiadi di Torino. Benché fino ad allora non abbia mai dovuto mantenersi, suo padre ha fatto in modo che avesse ben chiaro in mente quanto costasse il sol fatto di esistere.

«Ti faccio un esempio. Frequentavo una business school privata nella quale c’erano delle borse di studio al merito. Io le ho sempre prese, per cui mi venivano restituite le rate semestrali dell’università. E questi soldi, mio papà se li è sempre tenuti per sé. Cioè non sono mai finiti sul mio conto corrente. In quel modo lì mi faceva capire: “Guarda che noi paghiamo per mantenerti. La tua vita ha un costo”. E quando io ribattevo che facevo la vita di Giacomo Leopardi, sempre sui libri, il mio papà mi faceva i conti. E questa cosa non serviva a rinfacciare. Serviva proprio a spiegarmi il costo di base dell’esistenza. Ed è lì che ho capito che i figli avevano un costo. E una cosa che mi è venuta molto utile. Perché ho notato che rispetto alla media delle mie coetanee, delle persone che conosco, sono arrivata alla genitorialità con una percezione un po’ più intensa di quello che costa avere una famiglia».

Valeria calcola esattamente quanto può concedersi, sia mentalmente sia economicamente, di congedo di maternità e sceglie con largo anticipo l’asilo nido a cui affidare suo figlio quando tornerà al lavoro.

«Mio figlio è nato a giugno. Io a maggio, gravemente incinta, andavo negli open day. Questa cosa qui sono sicura che tolga romanticismo. Sono sicura che tolga il rispetto dei propri tempi, perché io avrei potuto avere un bambino e scoprirmi, invece, desiderosa di posticipare il ritorno al lavoro. Però sono stata razionale e non rinnego la scelta».

La scelta di passare alla libera professione

Lo stesso pragmatismo Valeria lo applica quando decide di lasciare il posto fisso.

«Ho fatto un percorso di orientamento professionale che aveva una doppia funzione. Da un lato quella di stimare la mia reale predisposizione per la libera professione, e mi sono scoperta desiderosa di essere libera, di gestire il mio tempo e di non avere nessuno che mi soffiasse sul collo, cosa che se avessi sostenuto lo stesso test cinque anni prima, avrei risposto esattamente l’opposto. E dall’altro lato, verso la parte finale di questo percorso, c’è stata una parte vera e propria di business plan».

E così, nel gennaio 2020, con un tempismo sconcertante rispetto alla pandemia, Valeria si dimette e apre la partita Iva.

“E anche in questo un ruolo molto importante l’ha avuto mio papà, che era già mancato da un paio d’anni, ma tra le sue ultime disposizioni c’era: ‘Licenziati!’. Era un tipo sui generis. Ha chiesto esattamente cosa voleva che ci fosse nei vassoi del rinfresco al suo funerale. E poi mi ha detto: ‘Basta Valeria, basta, non ti si sopporta più, se infelice, non ti piace, vuoi fare altro, vuoi essere altrove, Vai, licenziati. Se hai bisogno di aiuto, chiedi a mamma per un po’ di tempo’. Non ce n’è stato bisogno”.

Valeria può contare sui suoi risparmi ma anche sull’eredità che gli lascia suo padre: «Il regalo che lui mi ha fatto è stato quello di farmi stare tranquilla. sicuramente quel cuscinetto psicologico è stato fondamentale e consiglierei a tutti, non dico di averlo perché è un privilegio, ma di contribuire a crearlo perché secondo me fa completamente la differenza in termini di benessere, di allegria».

La consapevolezza di come spende il denaro

Con il salto alla libera professione, migliora la qualità della vita di Valeria, ma non la sua condizione economica, che rimane stabile, a differenza di quanto era successo a suo padre.

«La mia vita mi piace, non faccio un’esistenza povera, non sento che ci siano delle lande inesplorate che devo andare a prendermi a tutti i costi. Quindi ho deciso di non prenderla con eccessiva rabbia. Ogni tanto ho i miei momenti di invidia sociale, ma li soffoco. Noi, rispetto alla generazione dei nostri genitori. abbiamo questo raffronto costante con il mondo dei social, con queste vite ammirabili e sovraesposte che costituiscono costantemente una pietra di paragone. Essendo una persona che coi social ci lavora, ho un occhio più critico: quando osservo vite ammirabili penso sempre che dietro al benessere ci siano dei costi, monetari prima di tutto, ma anche emotivi. E a volte mi chiedo se io quei costi lì sarei capace di sopportarli. E molte volte mi dico di no. Questo tipo di ragionamento, che a volte mi viene benissimo, altre volte mi costa un pochino più di fatica. Me lo ripeto spesso e di solito mi tranquillizza».

Eppure, pur tenendosi alla larga dall’invida sociale, Valeria continua a sentire che c’è qualcosa che non va nel modo in cui i suoi soldi si muovono nel conto in banca: non crescono, insomma, secondo le sue aspettative.

«Quindi, o qualcuno mi sta prendendo i soldi dalla banca, o più probabilmente spendo in voci voluttuarie o comunque non voluttuarie, ma devo capire esattamente dove».

Ed è qui che le lezioni apprese da suo padre le tornano in soccorso.

“Io da un po’ di mesi mi sono creata un sistema di contabilità personale. È un po un mio pallino: il magico Excel, in Google Drive, con una categorizzazione di spese molto dettagliata, che compilo quasi in tempo reale e che mi dà la percezione di come spendo il denaro. Attualmente non si è ancora tradotto in una decisione vera e propria. Cioè devo capire se c’è un’area all’interno della quale voglio lavorare veramente per riuscire a risparmiare o modificare le mie abitudini di consumo. Però il lavoro di consapevolezza, secondo me, da solo già vale la candela”.

Un’altra cosa di suo padre che Valeria inizia a riconoscere in sé è il pensiero del futuro.

Il pensiero costante del futuro

«Mio papà aveva lo sguardo sul futuro e secondo me avere uno sguardo sul futuro è da un lato sicuramente un privilegio generazionale: loro avevano il diritto di immaginarselo il futuro di lungo periodo. Mio papà quindi, da un lato aveva il privilegio generazionale, ma dall’altro aveva studiato, era andato ad approfondire i temi. E questa cosa qui per un po’ ho fatto finta che fosse altro da me, mentre da un po’ di anni ho sviluppato anch’io lo sguardo sul futuro e quindi sto pensando alla mia vecchiaia».

Valeria da cinque anni investe una piccola cifra ogni mese in un piano di accumulo. E riconoscere in questo gesto un’eredità di suo padre è stato possibile anche grazie a un percorso di psicoterapia iniziato dopo la sua morte.

«Pensare al domani è una cosa che mi ha insegnato mio papà. Pensarci anche senza ansia, con tranquillità, cioè nella consapevolezza che a un certo punto si diventa anziani e non si è forse più in grado di provvedere a se stessi. E mi piace pensare che quest’attenzione nuova al mondo del denaro e della finanza, sia anche un modo per riconciliarmi con lui su alcuni punti. Un modo per guarire alcune ferite aperte che durante il percorso di terapia abbiamo affrontato».

Quella che ci sta raccontando Valeria, insomma, è la storia di una riconciliazione tardiva. Di un dialogo intimo e quotidiano che continua, sfidando la morte, proprio attorno al tema dei soldi.

“Molto spesso i nostri genitori avevano dei lati molto belli, e io di mio padre ne riconosco molti, ma anche dei lati estremamente difficili. Ci sono dei motivi per i quali non li capiamo o siamo profondamente arrabbiati con loro. Ecco, probabilmente capire l’eredità che mio papà mi ha lasciato, non solo in termini monetari, ma anche in termini di atteggiamento di pensiero sul denaro è stato un modo per dire: ‘Ok, hai commesso degli errori, hai avuto delle manchevolezze e non ci siamo capiti su tanti aspetti, ma su questo, sei con me tutti i giorni”.

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