La settimana bianca non è mai stata così cara. E affollata
Nel Paese dove quasi 5 milioni di famiglie versano in condizioni di povertà, come ha certificato l’ultimo rapporto Istat, quest’anno una settimana sulla neve costa più di 7.000 euro a famiglia. Ma oltre ai prezzi in salita, qual è il prezzo che paga la montagna?
Tempo di lettura: 7 minuti
di Giorgia Nardelli
Giornalista esperta di diritti dei consumatori e finanza personale.
Sui social circola un video girato sulle piste di Ischgl, in Austria. Fa sorridere, ma fa anche un po’ tristezza, con quella discesa più affollata della galleria di un centro commerciale, gli sciatori che sembrano piccole marionette impazzite, tra chi rotola, chi si rialza e ricade, chi fa lo slalom tra gli ostacoli. In quello che in altri periodi dell’anno è certamente un paradiso naturalistico, sciare è praticamente impossibile. Di video così ne girano tanti da un po’, – uno simile, stesso tracciato, stesse scene, era finito sul web esattamente un anno fa – e ci dicono tutti una cosa: anche se andare in settimana bianca non è mai costato così tanto, mai come negli ultimi tempi, la montagna è stata presa d’assalto.
Le stagioni più affollate di sempre
Carlo, che a dicembre è tornato sulle Dolomiti, mi conferma che negli ultimi anni tutto è diventato più difficile: file agli impianti di risalita, file nei rifugi, chalet che diventano discobar all’ora dell’aperitivo e strade affollate. Nel solo Trentino, per citare uno dei territori chiave, la stagione 2022/23 ha segnato più di 7 milioni di pernottamenti, il miglior risultato negli ultimi 10 anni. Gli arrivi sono aumentati del 7,9% sul 2018/2019, ultima stagione dell’era precovid e quest’anno tutto sembra far pensare che il record verrà superato: «Poca neve e prezzi in salita per chi ha scelto di passare le vacanze di Natale sugli sci», titolava a inizio gennaio il Tg3.
Strategie di sopravvivenza
Nel Paese dove quasi 5 milioni di famiglie versano in condizioni di povertà, come ha certificato l’ultimo rapporto Istat, e dove l’inflazione ha eroso in due anni il potere di acquisto dei ceti medio bassi, quest’anno una settimana sulla neve costa più di 7.000 euro a famiglia, secondo le stime di Federconsumatori. Pur di non rinunciare alla vacanza – ha spiegato l’associazione – molti hanno scelto di ridurre la durata del proprio soggiorno, magari sostituendo gli alberghi con appartamenti, b&b, ostelli e soluzioni più economiche. È quello che ha fatto anche Arianna a inizio gennaio: «Ho ridotto la nostra vacanza familiare da sette a cinque giorni per poter spendere la stessa cifra dello scorso anno. I prezzi sono saliti ovunque, per un panino e poco altro, al rifugio quest’anno spendevamo 60 euro in tre. L’anno prossimo ci porteremo i panini da casa. Gli sci sono la mia passione, ma per questi pochi giorni all’anno sono costretta ogni volta a rivedere i bilanci e rinunciare a vacanze più lunghe e in posti nuovi».
Possiamo ancora permetterci la settimana bianca?
C’è chi, come Massimiliano, per risparmiare ha provato il “mordi e fuggi” in un giorno, riempiendo una macchina con gli amici per raggiungere una stazione a 3-4 ore da casa. «Abbiamo provato a fine gennaio, destinazione i Quattro Passi, di lunedì, sperando che la bassa stagione e il giorno infrasettimanale ci regalassero una bella giornata. Invece nulla. Tantissimi stranieri, un’ora di fila per accedere all’impianto di risalita, pagando 80 euro per lo skipass giornaliero». Secondo un report pubblicato sul blog di Radical Storage, la App del deposito bagagli, il prezzo medio di uno skipass giornaliero nelle stazioni europee è stato nel 2023 di 66,46 euro, il 24,7% in più rispetto all’epoca precovid. Dal 2015 i prezzi cresciuti del 34,8% oltre il livello dell’inflazione. I dati di Altroconsumo, che registra ogni anno i prezzi nei maggiori comprensori italiani, non si distaccano, tanto che l’associazione parla quest’anno di una settimana bianca “in salita”.
Perché la neve è diventata un lusso?
A chi chiede il perché di tanti rincari così repentini, gli esperti spiegano che l’evento che ha segnato uno spartiacque nel turismo invernale è stato il covid. Secondo Raffaele Marini, presidente della Commissione centrale tutela ambiente montano del Cai, il Club Alpino Italiano, la pandemia è stato un elemento di distorsione non trascurabile. «I due anni di blocco, quel black out che ci ha tenuti a casa per mesi, hanno fatto nascere un forte desiderio di riprendersi il tempo perduto. Così, finita l’emergenza la domanda ha preso a crescere in maniera ancora più sostenuta, e i problemi che c’erano già prima si sono amplificati. I grandi comprensori hanno continuato ad accogliere persone, e ormai sono saturi. In aggiunta, il cambiamento climatico ha spinto negli ultimi anni a realizzare sempre più nuovi impianti di innevamento artificiale, quasi ovunque, costi che hanno inciso sul biglietto finale. Ecco quindi li paradosso: per rendere lo sci più disponibile a tutti, si ha l’effetto di farlo diventare sempre più costoso, uno sport presto permesso ai soli ricchi». Un numero? Secondo il dossier Nevediversa di Legambiente, l’Italia è tra i paesi alpini più dipendenti dalla neve artificiale con il 90% di piste innevate artificialmente.
Il prezzo più alto? Lo paga la montagna
Intanto la montagna soffre. In Italia, recita un documento del Cai sull’impatto dell’industria dello sci sull’ambiente, le presenze invernali si attestano tra 25 e 30 milioni, un quinto della frequentazione alpina totale. Ma tra perdita della biodiversità, allontanamento spontaneo delle specie faunistiche e problemi alla qualità del suolo, l’impatto sui territori è altissimo. Ogni impianto di risalita – secondo Legambiente sono 150 i progetti di ampliamento che minacciano siti protetti -, ogni pista battuta in più, ogni strada e ogni infrastruttura è una ferita che crea danni profondi. All’ambiente, all’ecosistema, al terreno e non ultimo all’equilibrio sociale ed economico. Perché i turisti portano soldi, è vero, ma in modo disomogeneo, sottolinea Marini. «Se guardiamo i flussi del turismo invernale, la gran parte degli utenti si distribuisce in maniera anomala, si concentra attorno alle stazioni sciistiche. D’estate è lo stesso, perché i grandi comprensori hanno trovato modo di riconvertire territori e servizi in chiave estiva. Il valore si crea solo in quell’area, più ci si allontana, meno c’è. Si aggiungono altri effetti, come quello che ha colpito centri come Cortina, che negli ultimi 15-20 anni ha perso un quarto della popolazione a causa dell’aumento del costo della vita».
Non è che ci perdiamo il meglio?
E poi ci siamo noi, i turisti, tra cui ci sono gli irriducibili dello sci, chi lo fa perché è glamour, chi non lo ha mai fatto e solo negli ultimi anni ha pensato di cominciare. «L’impressione, però, è che la maggior parte dei turisti la montagna la usano, senza viverla. Chi viene dalla metropoli, molto spesso, riproduce i ritmi e gli stili di vita della città. Sì, portano i soldi, ma quanto importa loro della vita della montagna?», si domanda Marini. «C’è una frase dello scrittore Mario Rigoni Sterni, a proposito di Cortina e Marilleva dove, diceva, una parte del condominio di Milano o di Roma si è trasferita per le vacanze: “Il turista infila gli sci appena fuori dalla porta di casa, scia tutto il giorno, ritorna in appartamento, accende la televisione, e si addormenta pensando: “Che bella giornata ho passato”, senza mai accorgersi, invece, del sole che sorge e che tramonta”. Quando su alcune piste senti la musica a tutto volume che pompa adrenalina, quando vedi quel modello, come puoi non pensare che sia così?».
Una montagna alternativa: gli esempi della Valle Maira e degli Appennini
Il Cai da anni cerca di promuovere un modello di turismo che vada oltre a quello di massa, fondato solo sullo sci, e che si basi su una frequentazione “responsabile” della montagna. Già esistono diverse località dove, appesi gli sci al chiodo, si possono assaporare il silenzio e la fatica durante una ciaspolata, la lentezza dello sci di fondo, il piacere di una passeggiata, senza dare fondo al conto in banca. «Valle Maira, in Piemonte, non ha impianti turistici, è un posto dove si fa scialpinismo, si va con le racchette, si fanno escursioni. Anche in Valle di Funes è stato sviluppato un modello simile. E poi ci sono tani luoghi sull’Appennino, non ancora pubblicizzati, dove la vacanza significa ricaricarsi nella natura, dormire non in casermoni ma in piccoli alberghi diffusi o in b&b e agriturismi. Al momento sono soprattutto turisti stranieri a popolare questi luoghi, ma se vogliamo tornare un turismo vero e sostenibile per tutti, è in quella direzione che dobbiamo guardare».