Lo studio rappresenta ancora un ascensore sociale?
Le generazioni precedenti hanno goduto di un mercato del lavoro più favorevole, con maggiori possibilità di inserimento e crescita professionale, rispetto a quanto stanno vivendo i giovani odierni. Non solo: i giovani di oggi oltre a guadagnare meno, sono anche più poveri. Questo panorama scoraggiate rappresenta un ostacolo significativo alla crescita economica del Paese, e altro non è che il fallimento più grande del “sogno capitalista”, e cioè che i figli sarebbero stati più ricchi dei loro padri.
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di Annie Francisca
Autrice specializzata sui temi di sostenibilità, esteri e diseguaglianze sociali.
«Io mi sono laureata perfettamente nei termini, ho preso la lode e avevo una media stratosferica. I primi anni di lavoro ero entusiasta, anche se guadagnavo poco, perché mi piaceva quello che stavo facendo e pensavo ne sarebbe valsa la pena. Dopo però, quando ho visto che non c’era riscontro né professionale né economico, le batterie si sono un po’ scaricate e le priorità sono cambiate». Valentina ha quasi 30 anni ed è un’avvocata. Subito dopo la laurea, conseguita nel 2018, ha iniziato il praticantato in uno studio legale, dove percepiva un rimborso spese di 200 euro, una tantum. Dopo l’abilitazione, nel 2021, ha dovuto aprire la partita Iva e ha iniziato a guadagnare prima 700 euro mensili, poi 900. «Adesso ne guadagno 1000, ma stiamo parlando di importi lordi da cui devo togliere i contributi che verso alla Cassa Forense, il 5% di tasse sul 78% di fatturato, che è il regime forfettario, più l’imposta di bollo. Se tolgo le spese per la benzina, mi restano circa 300 euro al mese. A 30 anni, i nostri genitori potevano tranquillamente decidere di sposarsi e avere un figlio, perché avevano un lavoro stabile già da tempo; mentre noi, nonostante lo studio, siamo ancora al punto di partenza». Nel dibattito sulla condizione dei giovani in Italia si riconosce sempre di più che i ragazzi di oggi non hanno le stesse opportunità avute dai loro genitori sul mercato del lavoro. Come fa notare Massimo Taddei su Pagella Politica, nel 1985 il salario annuo mediano di un lavoratore con più di 55 anni di età era più alto del 15% rispetto a quello di un lavoratore con meno di 35 anni di età. Nel 2019 questo divario era superiore al 30%.
La mancanza di un ricambio generazionale
«Io non posso avere accesso a un finanziamento, o a un mutuo. Non è che debba essere una priorità comprare la macchina o la casa, però io mi sto facendo ancora aiutare dai miei genitori perché non ho le disponibilità economiche sufficienti per essere indipendente», racconta Valentina; che, stanca di questa situazione di stallo professionale ed economico, ha deciso di cambiare lavoro e di iscriversi a un Master per specializzarsi in ambito aziendale. «Dopo cinque anni di Giurisprudenza mi sono resa conto di aver imparato a studiare, ma nel concreto mi sembra di non saper fare nulla. E quindi, per avere le competenze richieste dalle aziende, a 30 anni devo rimettermi a studiare». Per avere di che vivere durante i mesi del Master, Valentina sta cercando dei lavori da poter svolgere nel weekend, che però, non hanno nulla a che vedere con il suo titolo di studio.
Nel 2022, secondo i dati diffusi da Eurostat, il tasso di occupazione dei neolaureati in Italia – fino a tre anni dal conseguimento del titolo – era pari al 65,2%. Uno scenario alquanto scoraggiante, se paragonato all’82,4% della media europea. Questo divario evidenzia diverse criticità nel mercato del lavoro italiano, tra cui la discrepanza tra le competente acquisite dai laureati e le reali esigenze del mercato del lavoro. Questa dissonanza rappresenta un ostacolo significativo all’inserimento professionale dei giovani e, non meno importante, alla crescita economica del Paese. «Il mio compagno, per esempio, è un tecnico specializzato in meccanica ed è una figura molto ricercata perché ha una specializzazione che lo rende appetibile. Tutto questo senza aver fatto nessuna università. Anche mio padre, che ha 60 anni, continua a ricevere proposte di lavoro da molte aziende che non riescono a trovare giovani adeguatamente competenti per le posizioni richieste. Questo perché fa parte di quelle “vecchie figure professionali” che adesso non esistono più e che sono state formate in un determinato modo», continua Valentina. Perciò, nonostante gli sforzi per aggiornare i curricula e promuovere l’apprendimento, persiste un forte mismatch tra le competenze acquisite all’interno delle università e quelle richieste dalle aziende, e questa situazione non fa altro che allontanare le nuove generazioni dal “sogno” capitalista, e cioè la convinzione che i figli sarebbero stati più ricchi dei loro padri.
Lo studio come strumento di emancipazione
Allo stesso modo di Valentina, anche Nello, 32enne pugliese, fa parte di quella generazione che aveva idealizzato lo studio come strumento di emancipazione economica e professionale. Trasferitosi a Roma per studiare Lettere, si rende conto per la prima volta quanto costi vivere. Ogni giorno che passa, capisce l’enorme sforzo che hanno fatto i suoi genitori: riuscire a pagargli gli studi in città così costose. «Finita l’università, Nello si ritrova a dover chiedere nuovamente aiuto ai suoi genitori perché il master prevede uno stage di sei mesi, praticamente gratuito. Dopo lo stage, gli propongono un contratto di apprendistato e Nello inizia a percepire uno stipendio di 1200 euro, che gli sembrano tantissimi. Un anno e mezzo dopo, riceve una nuova offerta di lavoro, con contratto di apprendistato. Accetta ciò che gli viene proposto, consapevole di star facendo un altro passo indietro. E infatti, nel momento in cui con la sua compagna decide di acquistare una casa, il suo contratto di apprendistato lo mette in una situazione di debolezza, che risolve mettendo i genitori come garanti. L’acquisto della casa è anche il momento in cui Nello realizza che sì, ha un buono stipendio, ma non ancora sufficiente a mettere da parte i soldi necessari a realizzare gli obiettivi di vita che si è posto. Per pagare l’anticipo, infatti, deve chiedere nuovamente aiuto ai suoi. In quel momento, la speranza che lo studio avrebbe garantito una vita tranquilla sembra frantumarsi alla prova della realtà. «In vista di un futuro, a volte mi chiedo come potrei mai dare a un eventuale figlio quello che i miei hanno dato a me, con la stessa tranquillità, in una città come Roma, con degli stipendi come quelli che abbiamo noi e con delle dinamiche di vita completamente diverse, ribaltate rispetto a quelle che avevano i miei genitori».
I giovani italiani sono più poveri
Da queste due testimonianze, specchio di moltissime altre storie, emerge un’altra considerazione: i giovani lavoratori italiani non solo guadagnano meno, ma sono anche più poveri. Come continua Massimo Taddei, «la percentuale di giovani lavoratori che vive in povertà è aumentata, mentre per i lavoratori con più di 55 anni è diminuita: nel 2019 la quota di anziani nel 5 per cento che guadagna meno è calata di oltre il 2 per cento». Come sottolineano i risultati di una ricerca sull’aumento del divario salariale tra giovani e anziani, condotta da due economisti italiani, Nicola Bianchi e Matteo Paradisi, questo è il risultato di una pesante mancanza di ricambio generazionale. Ma anche il sistema di determinazione dei salari non aiuta se si considera che la retribuzione, in Italia, è basata sopratutto sul grado di anzianità. Ciò spinge le persone a cercare un posto fisso e a rimanere a lungo nella stessa posizione e questo ha un impatto negativo sulla mobilità. Come conclude Taddei, «più che di una regressione, si potrebbe parlare di una mancata crescita, sia economica sia nella capacità innovativa. Il problema è che, nel frattempo, chi aveva già un lavoro fisso ha visto crescere la propria retribuzione, mentre chi doveva entrare nel mercato del lavoro ha avuto più difficoltà. E così i giovani si sono trovati più poveri dei propri genitori».