È il momento di pianificare la longevità

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Giorgia Nardelli
Giorgia Nardelli

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Giornalista esperta di diritti dei consumatori e finanza personale.

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Foto di Caroline Hernandez

Quota 100 (poi diventata 101 e 103), Ape sociale, Opzione Donna, scaloni e scivoli. Qualunque sia la formula, non c’è Legge di Bilancio che non dedichi un corposo capitolo al tema caldo, anzi, caldissimo delle pensioni. La questione, come ci ripetono gli esperti, non riguarda però solo chi oggi si avvicina al momento di uscire dal lavoro, tutt’altro: il problema investirà soprattutto le nuove generazioni. Ma è davvero necessario cominciare a occuparsi oggi, di qualcosa che succederà tra 20 o 30 anni? La risposta è sì, e il perché ce lo ha spiegato un’esperta di longevity planning, che ci ha anche fatto scoprire che, dai 30 in su, occuparsi di pensione integrativa non significa solo stipulare una sorta di “polizza sulla longevità”, ma è una forma di risparmio con diversi vantaggi, anche fiscali.

Quando iniziare la pianificazione

«Non c’è un’età a partire dalla quale occuparsene, basti pensare che oggi ci sono già nonni che “regalano” la pensione integrativa ai nipoti ancora minorenni, un fenomeno che già lascia intuire quanto questo tema sia di vitale importanza. A conti fatti, però, l’età media dei giovani che raggiungono una vera indipendenza è di 32 anni, ed è tra i 30 e 40 anni che parte la carriera professionale. È questo, insomma, il momento in cui si è pronti per agire» spiega Emanuela Notari, consulente ed esperta di temi legati alla longevity economy.

Perché iniziare a pensare alla pensione: la riforma

Emanuela Notari ha il dono di spiegare in modo semplice ed efficace temi molto complessi, e lo fa anche quando parla di riforma pensionistica del 1995. «La riforma ha modificato il sistema di calcolo utilizzato per definire l’ammontare degli assegni pensionistici. Il precedente metodo era retributivo e si basava essenzialmente sulla media delle ultime retribuzioni del lavoratore: l’importo equivaleva all’incirca all’80% dell’ultimo stipendio. Gli assegni dei nostri nonni, sono quindi in media un 20% più bassi delle loro ultime retribuzioni: potremmo dire che chi guadagnava 2.000 euro al mese, oggi ne percepisce circa 1.600», spiega l’esperta. Il punto è che oggi questo sistema non è più sostenibile. La ragione principale è la sperequazione tra il numero di anziani, in costante crescita anche per l’allungamento della vita media, e la decrescita della natalità, fenomeno che interessa il nostro Paese ormai da diversi anni, e ha come conseguenza la diminuzione del numero di persone in età lavorativa. Vale a dire coloro che, nel nostro sistema previdenziale, pagano con i propri contributi le pensioni correnti. I pensionati di oggi percepiscono l’assegno pensionistico anche per 20-25 anni, mentre i lavoratori giovani sono meno rispetto al passato e hanno stipendi spesso più magri. Il rischio, dunque, è che nel breve termine i contributi versati nelle casse di previdenza non siano più sufficienti a sostenere la spesa pensionistica. «Se si fosse continuato a usare il vecchio metodo di calcolo, il sistema sarebbe esploso, ragione per cui, da una parte è stata allungata l’età per la pensione di vecchiaia a 67 anni, senza più differenza tra uomo e donna, dall’altra è stato sostituito il precedente metodo di calcolo con quello contributivo, sicuramente meno generoso».

Come vengono calcolate oggi le pensioni 

Come si arriva a calcolare l’ammontare degli assegni di oggi? «Il punto di partenza non sono più le retribuzioni, ma i contributi effettivamente versati, e questo costituisce per noi un grande cambiamento», sottolinea Notari. «Intanto perché si inizia a lavorare a 30 anni, e non più a 20, di conseguenza si versano contributi per meno tempo, in secondo luogo perché le carriere oggi sono molto più discontinue rispetto al passato. I lavoratori delle precedenti generazioni entravano in un’azienda a 20 anni, vi restavano per tutta la vita lavorativa e facevano carriera all’intero della stessa società. Oggi ci sono contratti meno stabili, si cambia più spesso datore di lavoro, ci si mette in proprio e ci sono interruzioni frequenti».

Donne e giovani: i più fragili

Le categorie maggiormente penalizzate sono proprio donne e giovanissimi, più esposti al lavoro precario. «I 30enni di oggi andranno in pensione probabilmente a 70 anni, perché l’età pensionabile si allunga con l’aspettativa di via. E magari fosse solo questo. Sulla base delle proiezioni ufficiali, percepiranno assegni che saranno in media il 50-56% dello stipendio attuale. Chi ha davanti uno scenario del genere ha due scelte: prepararsi a vivere con la metà delle risorse, oppure correre ai ripari mettendo da parte la pensione integrativa».

Come integro la pensione se sono dipendente

La prima opzione, se si è dipendenti, è senza dubbio quella di scegliere , se disponibile, il fondo pensione offerto dall’azienda, e cioè il fondo negoziale. Ne esiste uno per quasi tutte le categorie di lavoratori, che è stato individuato grazie a un accordo tra le parti sociali. C’è per esempio il fondo dei lavoratori nel comparto metalmeccanico, in quello del commercio, dei bancari e degli infermieri, ecc. Conviene sottoscriverlo non appena si comincia a lavorare, ricordando che il denaro non andrà perso in nessun caso. Anche nell’eventualità in cui si dovesse cambiare lavoro, il denaro versato e gli interessi maturati potranno essere trasferiti su un altro fondo. «Nel concreto, aderire a un fondo pensione significa versare piccole somme mensili, a partire dal Tfr, che saranno gestite dal fondo e investite. L’obiettivo è arrivare a fine carriera ad avere accumulato una somma in grado di garantire una rendita mensile vitalizia, che integrerà la pensione», spiega Notari.

Versare il Tfr nel fondo pensione 

Molti si chiedono perché aderire al fondo pensione a inizio carriera, quando le retribuzioni sono minime, e spesso non arrivano a coprire le spese necessarie. «Con i fondi negoziali non c’è bisogno di attingere alla retribuzione: si può cominciare versando direttamente il Tfr, e cioè la somma mensile che il datore di lavoro accantona obbligatoriamente per  tutti i dipendenti», spiega Emanuela Notari. «Il Tfr si può lasciare in azienda o versare in un fondo negoziale. Quello lasciato nelle casse dell’impresa viene rivalutato in base all’inflazione ma resta nella disponibilità del datore di lavoro fino al momento di essere versato, e cioè fino alla pensione o all’uscita dall’azienda. Le somme così accantonate godono di una rivalutazione dell’ 1,5% all’anno, a cui si aggiunge il 75% dell’inflazione. Maturano però una tassazione basata sulle aliquote Irpef, variando dal 23% al 43%, per niente agevolata». Il lavoratore che conferisce il Tfr al fondo pensione, ha invece diversi vantaggi: «Intanto, diversifica l’allocazione delle proprie ricchezze, evitando di lasciarle nello stesso paniere, ed esponendo a un eventuale rischio dell’imprenditore datoriale in un colpo solo Tfr e stipendio. In secondo luogo, potrà avere una rendita previdenziale in genere più alta, con una tassazione inferiore».

Come “raddoppiare” i versamenti nel fondo pensione

Ne abbiamo parlato anche qui, aderire a un fondo pensione di categoria ha un doppio vantaggio: «Se il lavoratore decide di versare parte della sua retribuzione nel fondo l’azienda è tenuta a versare un contributo aggiuntivo, nella misura di una percentuale stabilita nei singoli contratti. A conti fatti, si va a raddoppiare o in alcuni casi a triplicare il proprio deposito», suggerisce la consulente, che aggiunge: «se nel tempo la retribuzione aumenta, l’ideale è decidere di tenere una parte dei maggiori guadagni per i propri obiettivi finanziari, per esempio il fondo di emergenza, i risparmi per comprare casa, gli investimenti o altro, e un’altra quota investirla nel proprio futuro, per beneficiare di questo vantaggio».

Quanti soldi investire nel fondo pensione 

Per “convenzione” si dice che andrebbe versato nel fondo pensione il 10% dei guadagni mensili, ma in realtà la percentuale andrebbe calcolata in base alla situazione di partenza e all’età. «Più si è giovani, più il tempo gioca a favore del lavoratore, e basteranno piccole somme. Da una parte, perché con il fondo negoziale c’è già il Tfr, e se a questo il lavoratore aggiunge una piccola percentuale di risparmio sul proprio stipendio, scatta il versamento aggiuntivo del datore di lavoro, dall’altra perché nel tempo anche piccole somme vanno a costruire un discreto capitale. C’è poi la leva dell’interesse composto, che fa lievitare gli importi in modo esponenziale – ne parliamo qui.

I vantaggi fiscali per tutti: quali tasse sulla pensione integrativa

I rendimenti maturati nel fondo pensione godono di una tassazione agevolata rispetto agli altri prodotti finanziari. Gli importi sono soggetti a una ritenuta del 20%, mentre per la prestazione finale si parla del 15%, ma la percentuale decresce con l’anzianità: se l’adesione al fondo supera i 15 anni l’aliquota diminuisce per ogni anno successivo dello 0,30%, fino a un minimo del 9%. Queste agevolazioni riguardano non solo i fondi negoziali, ma anche quelli aperti o Piani individuali pensionistici, che possono essere scelti anche dai lavoratori autonomi  – qui un articolo sul tema. 

Gli altri vantaggi: subito meno tasse, anche se sale lo stipendio

«Il vero grande vantaggio fiscale di chi investe in un fondo pensione, sia esso aperto o chiuso, è nell’immediato», sottolinea Emanuela Notari. È così: ogni anno è possibile dedurre dall’imponibile Irpef fino a un massimo di 5.164,57 euro; versando quindi fino a 180 euro al mese si può dedurre interamente ciò che si investe. «Tradotto in parole semplici, le somme che investo nel fondo vengono detratte dall’importo su cui vengono calcolate le imposte dovute al Fisco, dunque pagherò meno tasse. Questo vantaggio può essere gestito anche in modo strategico. Mi spiego: poniamo che io guadagni X euro al mese, e con il mio reddito rientri in un determinato scaglione Irpef. Poniamo anche che riceva un piccolo aumento, che però mi faccia finire nello scaglione di reddito successivo: andrò a pagare un’aliquota Irpef maggiore sui miei ulteriori guadagni. Per evitarlo, posso però versare quella somma in un fondo pensione: è come “metterla da parte”, con il vantaggio che al contempo eviterò una tassazione maggiore».

Riscatto anticipato, perché è meglio non pensarci

«Il fondo pensione non è uno strumento flessibile», premette la nostra esperta. «Le somme accantonate possono essere anticipate o riscattate anticipatamente solo in casi specifici: gli anticipi sono consentiti fino al 75% solo per una spesa sanitaria per grave patologia, l’acquisto o la ristrutturazione della prima casa, o fino al 30% per altre ragioni. Il riscatto totale anticipato invece è possibile in caso di protratta inoccupazione. Questo strumento va pensato come un’assicurazione sulla longevità. E anche in questo ottica, al momento del pensionamento, è bene scegliere con attenzione il modo in cui il capitale verrà liquidato. La legge dà la possibilità di decidere tra rendita mensile vitalizia e una formula “mista” che prevede di riscuotere una parte dell’importo sotto forma di capitale, arrivando fino al 50 del totale, e l’altra sotto forma di vitalizio. A meno di emergenze particolari, il consiglio è di optare sempre per la prima ipotesi, che assicura un’integrazione più robusta a tempo indeterminato».

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