Per 30 anni ho lasciato che mio padre gestisse la mia vita finanziaria

Daniela è figlia di due bancari. I servizi finanziari per lei sono nomi e cognomi di amici dei suoi genitori. Suo padre controlla e gestisce i suoi soldi. Ma quando decide di comprar casa, si accorge delle conseguenze delle sue scarse conoscenze.

Tempo di lettura: 9 minuti

Daniela Petrillo

Ascolta il podcast della puntata:

“Mi sono resa conto della mia totale mancanza di conoscenze quando ho deciso di acquistare una casa”.

«Ne trovai una che era esattamente come l’avevo immaginata, volendo bloccarla il prima possibile, ho staccato un assegno di una somma che non avevo sul mio conto. Nella mia testa c’è stato il ragionamento: “Oggi non li ho, ma presto li avrò. Perché sono in accordo con i miei genitori che posso comprare una casa”. Il problema si è palesato pochi giorni dopo, quando mio padre ha scoperto la matrice dell’assegno che avevo staccato. La sua prima reazione è stata uno scatto improvviso: “Che figura faccio?”. Mi ricordo che uscì con una rapidità che non gli ho mai visto per andare in banca a fare un giroconto. Avevo 31 anni. Lì ho iniziato a capire quanto fossi completamente vuota di contenuto, un foglio bianco».

Daniela Petrillo ha 35 anni. È la seconda di tre figlie. Oggi vive e lavora come designer a Milano ma è nata a Catanzaro, in Calabria. I genitori si erano conosciuti lì, tra gli uffici del Banco di Napoli, dove lui aveva fatto carriera e lei era andata in prepensionamento per occuparsi della famiglia. La sua è la storia di come si diventa finanziariamente adulti, emancipandosi dal premuroso, spesso invadente supporto dei propri genitori.

La banca per Daniela è una seconda casa. Niente a che vedere con l’istituzione austera in cui Mr Banks porta in visita i suoi figli nel celebre film Mary Poppins. «Uno dei giochi che facevamo più spesso con le mie sorelle era entrare e uscire dalla porta girevole, quella con il metal detector, e bloccarci a vicenda per vedere quanto resistevamo, sotto lo sguardo accondiscendente delle guardie».

I soldi non sono un argomento di conversazione né un tema di cui preoccuparsi. Se c’è un problema, papà può risolverlo. «E se non riesce a risolverlo mio padre, posso chiamare uno dei suoi colleghi che lo risolverà per me. I miei servizi bancari erano nomi e cognomi di colleghi e amici dei miei genitori».

Anche l’esperienza di chiedere un mutuo è completamente diversa rispetto a quella che vivono i suoi coetanei.

«Sono andata in banca, mi sono presentata come figlia di un ex collega di una filiale di Catanzaro, avevo con me alcune fatture che avevo emesso presso l’azienda per cui ero consulente. Hanno fatto fede quelle 6 fatture e nell’arco di una settimana un perito è uscito a visionare l’appartamento e ho avuto il lasciapassare. Ho potuto persino scegliere l’importo della rata del mio mutuo».

“Il giorno del rogito mi sono presentata con i miei genitori, perché era una soddisfazione averli con me, e si è subito creato un clima da spogliatoio tra il dirigente della sede e mio padre. Avevano un linguaggio comune, un modo di fare riconoscibile, anche nei miei confronti c’erano un rispetto e un’apertura incredibili”.

Il privilegio dentro cui Daniela cresce, però, si rivela essere una voragine di conoscenze che le mancano, una privazione di autonomia, di possibilità, di autodeterminazione.

«Io non credo che i miei genitori non volessero farmi crescere. Credo che lo facessero per proteggermi. Io però scalpitavo».

La ribellione di Daniela inizia ai tempi dell’università. «I miei genitori erano contrari al fatto che lavorassi perché ritenevano più efficace che mi concentrassi sullo studio. Mi dicevano: “Qualunque cosa di cui hai bisogno noi possiamo fornirtela. Tu pensa solo a studiare”».

Il prezzo da pagare di tanta fortuna, però, è che i desideri di Daniela dovevano essere legittimati dai suoi genitori. Un viaggio, una cena, un concerto: come poteva farli pesare sull’economia familiare? Così Daniela prende una scorciatoia.

«Ho iniziato a lavorare di nascosto durante gli anni dell’università. Ho fatto un’innumerevole quantità di lavori: l’edicolante nei turni del mattino, dalle 5:30 alle 9:30 prima di andare a seguire i corsi, la hostess ai convegni, il volantinaggio, persino l’animatrice all’ippodoromo di San Siro per i bambini che volevano andare sui pony».

In quel periodo, e fino ai fatidici 31 anni, quando ha stipulato un mutuo, Daniela aveva un conto corrente cointestato con suo padre, quindi tutte le entrate gli erano visibili. Lavorare segretamente non era così banale. «Per questo avevo chiesto a un’amica di poter utilizzare il suo conto corrente come appoggio: lei prelevava quei soldi e me li dava in contanti. In questo modo riuscivo a lavorare senza dichiararlo apertamente».

Daniela a un certo punto sente il bisogno di uscire da questa rete di protezione soffocante. Non vuole più lavorare di nascosto, così cerca una professione in linea con ciò che ha studiato: cosa che i suoi genitori avrebbero accettato. E si impone di non chiedere più il loro aiuto.

«Ci sono stati periodi di magra in cui ho subaffittato la camera su Airbnb e sono stata ospite da altri perché l’affitto non riuscivo a pagarlo. Avrei fatto qualunque cosa pur di non chiedere aiuto alla mia famiglia».

Ma è il momento dell’acquisto della casa il vero bagno di realtà sulla sua consapevolezza finanziaria. Non solo perché stacca un assegno scoperto. Ma anche perché, nel momento in cui palesa il desiderio di comprar casa, scopre che esiste un tesoretto che glielo avrebbe permesso.

“In quel momento ho capito che qualcuno aveva pensato a me molto prima che io fossi consapevole di dover pensare a me stessa. Quello è stato il click. Lì mi sono chiesta se nel mio futuro sarei mai stata in grado di occuparmi di mio figlio con tale anticipo per potergli permettere di ottenere ciò che lui desidera a un certo punto della sua vita”.

«Poi quell’io è diventato un noi: forse è l’intera mia generazione che non può permettersi niente del genere. Io oggi non ho la stessa possibilità di giocare d’anticipo che avevano i miei genitori. Io riesco a mettere da parte dei soldi per le emergenze, non per il mio futuro, e sono due cose ben diverse».

Per stipulare il mutuo, Daniela deve aprire il suo primo conto corrente autonomo. In quell’occasione si accorge di tutta una serie di spese che non aveva mai visto. E lei che faceva un bonifico anche per 10 euro, si è detta: “Aspetta un attimo, io devo pagare un euro per ogni bonifico, io devo pagare per il mio conto corrente? E per avere una carta di credito? No, non è possibile… e invece è tutto vero”.

Essere indipendenti non significa solo mantenersi da soli, ma anche occuparsi autonomamente dei propri soldi. Daniela, ormai convinta di proseguire su questa strada, decide di avvalersi del supporto di una commercialista e non di suo padre. «Avevo bisogno di poter chiedere spiegazioni, riferimenti puntuali, pagando un servizio, andando un pochino oltre, facendomi spiegare qualcosina in più. Mio padre l’ha presa molto male. Col tempo ho trovato modo per rassicurarlo. Quindi le cartelle in cui condividevo i contenuti con la mia commercialista erano per me e per lei in lettura e scrittura, per mio padre solo in lettura».

Staccarsi dalla famiglia per scrivere la propria storia personale significa anche fare scelte incompatibili con la visione del mondo dei propri genitori.

“Il lavoro a tempo indeterminato, nella testa di mio padre e della mia famiglia, è un posizionamento, qualcosa che ti definisce. Il fatto che ci si voglia spostare verso una nuova azienda, una nuova modalità di lavoro, o prendersi un momento di stop per riformulare i propri pensieri non è concepito come qualcosa a valore aggiunto”.

«Quando ho comunicato a mio padre che stavo coltivando l’idea di fermarmi e cambiare lavoro, la sua risposta è stata: “Tu sai che sono per la stessa maglia tutta la vita”. Io gli ho detto: “Papà, per me è soffocante, specie se la maglia è a collo alto”».

Daniela lascia il posto fisso a giugno 2022. «Il giorno in cui ho rassegnato le dimissioni, ho organizzato una festa con le mie più care amiche e l’ho chiamata “festa della liberazione”. Uscita dall’ufficio con lo zainetto pieno delle mie cose, sento i miei genitori per comunicare loro che l’ho fatto, ho dato le dimissioni, sono molto emozionata e adesso vado a bere con le mie amiche, e la risposta di mio padre è stata: “Le persone festeggiano quando trovano un lavoro non quando lo lasciano senza averne un altro”».

Un gap profondissimo separa i 35enni dai loro genitori. Ci vorrebbe qualcuno che aiutasse queste due generazioni a comunicare.

“Un po’ come il libro che spiega ai bambini il lavoro di mamma e papà. Io vorrei un libro che spiegasse ai miei genitori non tanto che lavoro faccio, su quello ho perso le speranze quando mi sono iscritta a Design, ma in che mondo lo faccio”.

Ormai avviata con positività e sicurezza sulla strada della consapevolezza finanziaria, Daniela ha appena ricevuto il suo Tfr, l’ultima entrata sicura. «Non ho chiesto consigli a mio padre su come gestire il Tfr e lui non mi ha proposto una mano. So che muore dalla voglia di dirmi qualcosa a riguardo ma non lo farà perché ha capito e sta iniziando a rispettare questi limiti».

Oggi Daniela, che conserva scrupolosamente gli scontrini della farmacia, ogni tanto li fotografa e manda un whatsapp a suo padre: “Hai visto? Ho imparato”.

«Quando ho fatto la mia prima precompilata da sola gli ho mandato uno screenshot: “Guarda, ho imparato a farla”. Lui, comunque, continua a ricordarmi le scadenze delle password per il sito dell’Agenzia delle entrate. Adesso è qualcosa che gli lascio fare perché mi fa piacere. Ma nei periodi di maggiore scontro anche quel messaggio lì per me era come una violenza».

“Era come se non venissi considerata capace di stare dietro alle mie cose. E più io cercavo di diventarlo, più dall’altro lato c’era qualcuno che col solo obiettivo di occuparsi di me in realtà mi stava tirando per la manica dicendo: ‘Non lo sai fare’. Ma io volevo inciampare, volevo commettere degli errori. Oggi è qualcosa di cui in famiglia parliamo, scherziamo ma su cui io sto molto lavorando. È un tema grosso per me”.

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