Produrre il proprio cibo può essere salvifico
Miriam Corongiu cresce a Portici, paesone sovrappopolato alle porte di Napoli. Attanagliata da un disturbo alimentare e da un perfezionismo cronico, abbandona l’università a un passo dalla laurea. Intanto si sposa e passa da un lavoro all’altro. Fino al giorno in cui, licenziata da una compagnia di navigazione a 45 anni, decide assieme a suo marito di trasformare i 4 ettari di terra della famiglia di lui in una piccola azienda agricola.
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Questa storia è realizzata in collaborazione con Banca Etica, una banca libera, indipendente e cooperativa, che finanzia solo progetti che producono impatti sociali ed ambientali positivi.
“L’agricoltura, negli ultimi dieci, quindici anni, è un’attività in perdita. Se dovessimo pensare in termini di profitto, sarebbe stupido portarla avanti. Se io dovessi pensare solo ai soldi, allora chiuderei. Questo non è un investimento come gli altri. Questo è un investimento in vita, non in soldi. Ed è a quello che si deve guardare”.
Miriam Corongiu manda avanti da 6 anni una piccola azienda agricola. Quattro ettari di terra ai piedi del Vesuvio, destinati storicamente a colture oggi in perdita come albicocchi e noci. Che lei non ha voluto spiantare. Ha preferito cambiare modello di business piuttosto che alberi.
Ma per capire com’è arrivata, a 50 anni, a vivere di agricoltura, dobbiamo partire dalle origini. Ovvero dalla sua infanzia urbana a Portici, paesone ad altissima densità abitativa alle porte di Napoli.
La dignitosa povertà dell’infanzia urbana
«La mia esperienza dei soldi è stata più nell’assenza che nella presenza, Non vengo da una famiglia facoltosa. Anzi, ho vissuto anni molto duri, in cui è stato difficile anche arrivare a fine mese. Ho sperimentato sicuramente molto decoro e molta dignità, però anche grandi difficoltà».
Suo padre, di origini sarde, aveva lavorato per 18 anni e un giorno nella Guardia di Finanza. Con la piccola pensione che ne aveva ricavato ci pagava a malapena l’affitto e per tutto il resto arrotondava facendo il perito automobilistico. Sua madre veniva dai Quartieri spagnoli di napoli. Era nata sotto le bombe e aveva conosciuto la povertà e la fame. Da quell’infanzia difficile era emersa con gravi problemi di salute. Trascorreva lunghi periodi in cui non reagiva, durante i quali il papà di Miriam si industriava a fare tutto. È andata avanti così finché lui non è mancato, decisamente presto, ed è toccato a Miriam occuparsi di sua madre.
Nonostante queste difficoltà, entrambi volevano che Miriam e sua sorella si emancipassero attraverso lo studio. Così Miriam sceglie il liceo classico
«A me è stato chiesto di studiare, se riuscivo, e di andare avanti per la mia strada. Loro, in qualche modo, avrebbero fatto fronte a tutto. Però io non me la sono sentita di lasciare a loro questo peso e quindi, non appena ho potuto, ho cercato di fare da me. Ho scelto sempre autonomamente, però, quando ho capito che c’era bisogno di aiuto, l’ho dato».
“Non mi hanno mai chiesto niente. Mai! Nemmeno una volta. Ero io che, nella maniera più delicata possibile, facevo scivolare questi soldi. Non lo dicevo nemmeno, li mettevo lì. Non volevo che soffrissero per questa cosa: non se lo meritavano. Hanno sempre faticato tantissimo. Per loro era umiliante non riuscire a provvedere in tutto. Però io ho letto il sollievo nello sguardo di mio padre quando riuscii a pagare un conto mensile che andava pagato con il salumiere sotto casa. Stiamo parlando di cibo, eh, mica di viaggi”.
Finito il liceo, Miriam inizia a dare lezioni private di latino e greco e a cantare nei locali. È così che riesce ad aiutare in casa e contemporaneamente a pagarsi l’università. Studia Lettere antiche, indirizzo archeologico. Ma procede lentamente per via dei mille lavori che fa. Non riuscirà mai a laurearsi. Ancora oggi, le mancano un esame e la tesi. E forse ha finalmente capito il perché.
«Ho scoperto soltanto da poco di avere un disturbo alimentare atavico. Lo sto curando da due anni. Allora tante cose non si sapevano. Io avevo un perfezionismo decisamente patologico che non mi faceva studiare nella maniera giusta. Cioè studiavo tantissimo, però gli esami erano un grave problema perché il momento del confronto mi creava un’ansia eccessiva, che non riuscivo a superare bene. Avevo la media del 29, però era una fatica enorme. Dovevo fare benissimo tutto. Lavoro e studio».
Benché non abbia una laurea, Myriam trova facilmente lavoro. Nulla che la appassioni particolarmente, ma d’altra parte non ha nessuna ambizione né economica né di carriera legata alla professione.
«A volte c’è una voglia di riscatto dopo la povertà, che può essere molto forte. Io questa cosa non l’ho mai provata perché sono stata sempre poco attratta dai beni materiali. Sai, un disturbo alimentare è un compagno che ti fa misurare il tuo valore in base alla tua immagine corporea e a quanto tu riesci a farti “vedere”. I soldi per me non sono mai stati né un’ideale di riscatto né tanto meno una fonte di stress da questo punto di vista, se non in termini di mera sopravvivenza».
La scoperta dell’amore (e della campagna)
Myriam arriva così ai 32 anni. Pochi giorni prima che suo padre muoia, in una delle rare pause che si concede dalle notti in ospedale, conosce Enzo.
«E subito ci siamo innamorati perché lui è sempre stato un ragazzo estremamente solido, sia nei sentimenti che nella “postura”. Enzo mi ha salvato la vita un sacco di volte, perché con tutti i problemi che avevo, con le difficoltà emotive che provavo non so dove sarei mai finita perdendo mio padre».
A 34 anni si sposano. Miriam va a vivere in campagna con lui e fa per la prima volta la conoscenza con una dimensione economica nuova per lei che era cresciuta in un contesto urbano di lavoro salariato e costi fissi, come l’affitto di casa, che pesavano come una spada di Damocle sul bilancio mensile familiare
«La campagna aveva una struttura economica completamente differente perché basata, per lo più, sul lavoro familiare non dipendente».
Nella vita dei suoi suoceri a un certo punto era intervenuta la fabbrica, come spesso accadeva nelle periferie delle zone economicamente più depresse. Ma il possesso della terra, la possibilità di produrre cibo, aveva sempre dato loro la serenità di sostenersi. Una serenità che Miriam, da bambina, non aveva conosciuto e che scopre adesso che va a vivere in campagna.
“Io lo dico sempre: a me il cibo a tavola non mancherà mai. E questo per noi è un grandissimo conforto. Penso moltissimo a Giorgia, mia figlia, e ai cambiamenti climatici che stanno peggiorando le condizioni di coltivazione. I terreni sono sempre meno. Quello che le dico è: ‘Tu impara a fare l’orto perché nei prossimi anni saprai sempre su cosa contare. Ci sarà sempre un’insalata o un pomodoro sul balcone che saprai coltivare e avrai sempre da mangiare’.”
Miriam e suo marito, pur vivendo in campagna, lavorano in città. Lei nel settore amministrativo di una compagnia di navigazione, lui come geologo. Quando, sei anni fa, la crisi economica e la cattiva gestione portano la compagnia di navigazione a licenziamenti collettivi, Miriam vive lo spaesamento della perdita del lavoro ma non il lutto per ciò che non avrebbe più fatto.
«Erano due anni ormai che non ne potevo di quel lavoro, anche perché io mi sento molto sacrificata nei contesti aziendali. Per me sono la morte della fantasia».
Anche lui non se la passa bene al lavoro ed è così che inizia a maturare in loro l’idea di prendere quei 4 ettari di terreno attorno alla casa di famiglia e di farne una impresa.
“Nessun atto eroico. Io questo ci tengo a sottolinearlo, perché poi cadiamo sempre nella stessa narrazione della donna imprenditrice che si reinventa. Finalmente ho imparato ad attribuirmi qualche merito per le cose che faccio. Però è importante ricordare che noi potevamo contare su una terra che già era nostra. E potevamo contare anche sul fatto che Enzo aveva la possibilità di mandare avanti il lavoro da libero professionista. Noi volevamo essere felici: il nostro investimento è stato in termini di felicità. Avevamo 44 e 45 anni a testa e volevamo fare una cosa diversa, che ci facesse respirare”.
L’investimento iniziale è la piccola buonuscita di Miriam, 12mila euro. «Io mi sono rimessa a studiare come una pazza, perché è quello che faccio sempre. Ho capito quale agricoltura volessi fare, e quale declinazione avrebbe dovuto avere. E quindi abbiamo deciso di aprire quello che oggi è l’orto conviviale e che è il mio alter ego in tutto e per tutto, perché io qui dentro ho la massima realizzazione».
Un nuovo modo di fare agricoltura
Su quella terra da decenni si portavano avanti le colture storiche vesuviane, le albicocche e le noci, che venivano rivendute agli intermediari.
«Mi raccontavano le mie cognate e mio suocero che una volta con un raccolto si potevano realizzare anche 10 milioni di lire, che all’epoca erano un’enormità. Questi soldi non si vedono più. E non è soltanto una questione di cambiamenti climatici che sicuramente influiscono sulle rese, né tantomeno di conflitto in Europa e quindi di generale recessione. È proprio il declino dell’agricoltura di piccola scala. Quindi io mi sono dovuta inventare un’azienda agricola completamente diversa».
Miriam ha calcolato con esattezza il costo di produzione di ogni frutto. Ogni chilo di albicocche le costa 1 euro. Quindi non può permettersi di venderlo a 40 centesimi a un grossista. Né tantomeno ha alcuna intenzione di cambiare coltura.
“Quando non può raccogliere il frutto di quell’albero perché gli viene pagato troppo poco, il primo pensiero che fa un agricoltore è spiantare quell’albero e metterne un altro. Ma io questo cuore non ce l’ho più. Senza gli alberi adulti noi non andiamo da nessuna parte. Quindi il mio compito è tenerli in vita, se voglio pensare a mia figlia e se voglio pensare alla collettività, cosa che faccio sempre”.
«Come facciamo, dunque, a indurre le persone a comprare le albicocche e a sostenerci? Abbiamo tolto di mezzo l’intermediazione e la grande distribuzione. Per diversi anni abbiamo invitato tutte le persone che potevamo a raccogliersi da sole le albicocche: gliele avremmo regalate. E abbiamo raccontato loro qual è la storia delle albicocche del Vesuvio, che sono il volto del Vesuvio, dalla fioritura alla fruttificazione. E abbiamo spiegato loro perché non le potevamo raccogliere, che avevamo bisogno del sostegno delle persone per poter andare avanti come contadini e come presidio del territorio».
Un anno venne persino la Rai a raccontare di quell’orto che pian piano diveniva sempre più conosciuto. E che intanto si faceva collettore di altre storie di resistenza.
«C’è una mia collega che ha un podere non troppo distante. Anche lei ha degli alberi storici di agrumi e arance. Quando si trova in difficoltà, perché ne ha troppi e non riesce a venderli o a raccoglierli, noi gliene compriamo un quintale e mezzo, due quintali e facciamo delle offerte qui nell’orto a casa, in cui spieghiamo chi è lei, che cosa fa, perché lo fa e perché una donna che fa agricoltura da sola (perché io ho un compagno, ma lei no) non deve essere lasciata da sola. Mai! Perché è un capitale dell’umanità».
Oggi l’orto conviviale apre due volte alla settimana, il martedì e il venerdì. Miriam ed Enzo ricevono le prenotazioni su whatsapp e in campo raccolgono solo il necessario per non avere sprechi. Le persone vanno a ritirare il cibo direttamente in campagna.
«In quel giorno, se il tempo è buono, possono tranquillamente aggirarsi in campagna, togliersi le scarpe, prendere un libro dalla libreria per il book crossing che noi abbiamo costruito in giardino, far giocare i bambini. Se c’è tempo si vanno a fare un caffè da soli dentro casa. Ci sono persone che vengono più per la parte conviviale che per la parte ortiva, perché qua trovano sempre un orecchio, un ascolto, la possibilità di rappacificarsi almeno 10 minuti».
Oggi l’orto è etico e sostenibile
Nel momento in cui diventa imprenditrice, Miriam fa una precisa scelta su dove tenere i soldi.
“Quando ho aperto l’orto conviviale, abbiamo fatto da subito scelte etiche in tutte le direzioni. Ero già interessata a questi temi: si trattava di praticarli. E quindi, non appena ho avuto bisogno di un conto dedicato, mi sono rivolta a Banca Etica. Per me era un valore avere il conto su una banca disarmata che fa un lavoro collettivo di contrasto ai cambiamenti climatici, che per noi sono la madre di tutte le battaglie. Anche se non facciamo investimenti, è importante per noi avere come approdo un conto che abbia un senso”.
Oggi l’Orto conviviale non è uno spazio utopico ma un’azienda sostenibile.
«Io con l’Orto conviviale riesco a pagare le esigenze educative di mia figlia, tutto quello che riguarda la scuola, le esigenze sanitarie, riesco sempre a fare la spesa e a pagare le bollette».
Ed è grazie agli introiti dell’orto che Miriam è riuscita a pagarsi le cure per il suo disturbo alimentare. Prima non avrebbe mai potuto permettersele. Anche se non ne era neppure consapevole.
«Non c’erano nemmeno gli strumenti a casa per rendersi conto di questa cosa. E ancora oggi ce ne sono molto pochi, per la verità. Perché, a meno che non siano le forme eclatanti super pubblicizzate dell’anoressia, della bulimia, tutto quello che c’è in mezzo non si sa nemmeno che esiste. L’accesso alle cure del sistema sanitario nazionale, per quello che riguarda i disturbi alimentari, è qualcosa di allucinante. A volte ci sono liste d’attesa chilometriche. Nel frattempo si muore, nel vero senso della parola. Quindi io adesso mi sono potuta accollare sia le cure psicologiche, quindi la cura di psicoterapia. Ma c’è anche un’altra parte che è quella della riabilitazione alimentare, che ha un percorso diverso. E ed è stato veramente un carico economico notevole».
In questo percorso, le chiedo, occuparsi di cibo attraverso l’agricoltura è stato parte del processo di guarigione della malattia?
“C’è una relazione molto stretta, anche inconsapevole, fra la produzione di cibo e la cura di un disturbo alimentare. Io ho avuto sempre una grande distanza dal cibo come desiderio. Perché quando hai un disturbo alimentare, il cibo è una strategia di compensazione. Quindi non pensi al cibo come a un vero e proprio piacere. Anzi, al contrario. Il cibo che produco io, invece, con queste premesse, anche tecniche e culturali, è il frutto di una terra che è considerata viva. E quando quel cibo lo mangi, lo metti in bocca, lo fai scendere e arriva nel tuo intestino, allora tu sai di aver creato un collegamento forte fra te e la terra, fra te e la natura, fra te e il mondo esterno. E siccome le persone che sono affette da un disturbo alimentare hanno gravi problemi di collegamento con il mondo esterno, allora sì, in questo senso produrre il proprio cibo può essere salvifico”.
Questa puntata è stata realizzata in collaborazione con Banca Etica.