Quanto ci costa davvero l’e-commerce?
Vi è mai capitato di passare tutto il giorno ad aspettare un pacco, e scoprire che il corriere lo aveva già consegnato? Oppure, di non averlo mai ricevuto? Se l’e-commerce è parte della vostra vita la risposta probabilmente è sì. E anche quando si hanno tutte le prove del mondo, quando l’azienda con cui hai a che fare è dall’altra parte d’Europa, può diventare difficile far valere i propri diritti.
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di Giorgia Nardelli
Giornalista esperta di diritti dei consumatori e finanza personale.
Lasciamo da parte per un momento la sostenibilità ambientale e sociale di questo modello, che spesso porta a movimentare oggetti di pochi euro per migliaia di chilometri, e concentriamoci sui disservizi, sempre più comuni: troppe le consegne, troppo esiguo il tempo a disposizione. 99 volte su 100 va bene, l’oggetto arriva a destinazione. Ma a volte no. L’ordine di Matilde, per esempio, non è mai stato trovato, e ci sono voluti un mese di mail, telefonate e messaggi Whatsapp per convincere il venditore a renderle il denaro perso per la mancata consegna. Le è andata bene, perché non sempre lo smarrimento di un pacco è dimostrabile. E anche quando si hanno tutte le prove, se l’azienda con cui hai a che fare è dall’altra parte d’Europa o addirittura del mondo, può diventare difficile far valere i propri diritti.
Oppure Daniela, che un anno fa Un ha restituito al venditore un materasso comprato online, perché non rispondeva alla descrizione. Quando ha spedito il reso – a sue spese, come da policy, usando un servizio suggerito dal sito di ecommerce a cui si era rivolta – il pacco è stato smarrito, nessuno si è addossato la responsabilità, e Daniela ha perso materasso e soldi. La sua colpa è stata quella di ignorare che se non assicuri ciò che spedisci, hai diritto solo a un rimborso base di circa un euro per chilo, cosa che spesso si traduce in una somma ridicola. E questo anche se stai esercitando il tuo diritto di reso, o magari il prodotto è difettoso, e tu avresti tutto il diritto di restituirlo al mittente. La norma in questione era scritta nel contratto che Daniela aveva stipulato con il corriere al momento di mandare indietro il materasso. Per esserne a conoscenza avrebbe dovuto, prima dell’invio, leggere un documento di almeno tre pagine, scritto in caratteri minuscoli e in un linguaggio incomprensibile. Un’incombenza che mal si concilia con un’operazione che per sua natura richiederebbe 3 minuti.
Una giungla di regole che tutelano poco o nulla
Non ci sono numeri o stime sui disservizi dell’e-commerce, anche se parliamo di un mercato che ha ormai raggiunto nel 2023 i 52,4 milioni di euro solo in Italia, secondo l’Osservatorio eCommerce B2c della School of Management del Politecnico di Milano. Sappiamo per esperienza che milioni di pacchi viaggiano ogni giorno lungo il Paese e arrivano nella grandissima parte dei casi a destinazione, che i grandi marchi sono generalmente molto affidabili sul servizio clienti, e i principali marketplace hanno politiche rigide sulla soddisfazione dei clienti. Amazon, per citare il più noto, pone degli obiettivi di performance per i venditori: chi supera dell’1% il tot di ordini contestati dai clienti ha un tot di tempo per migliorare, pena la sospensione o la penalizzazione dell’account. Ci sono casi in cui, però, sono le stesse norme a tutelare poco i consumatori, che non conoscono nemmeno le regole del gioco.
Il prezzo della comodità
Compriamo online per questo: perché abbiamo un’offerta potenzialmente illimitata, e possiamo farci consegnare dove desideriamo, nel giro di poche ore o pochi giorni, qualcosa che dovremmo cercare in chissà quanti negozi, senza muovere un dito, nella convinzione di spendere meno. Ma lasciando perdere per un attimo il tema della sostenibilità ambientale e sociale di questo modello, che porta a movimentare anche oggetti dal costo di pochi euro per migliaia di chilometri, arricchendo pochi soggetti a discapito di molti altri, siamo sicuri che ci convenga davvero? E soprattutto, ci siamo resi conto di avere barattato i nostri diritti con tutto questo?
Barbara aveva comprato con una promozione “tre per due” tre bellissime felpe, su un e-store italiano. Dopo quattro mesi di attese e il tentativo di farsi capire da un chat bot che forniva solo risposte automatiche, si è vista recapitare a casa solo due delle tre maglie ordinate, e al posto dei soldi ha ricevuto un buono acquisto che non vuole utilizzare: per spenderlo dovrebbe effettuare un altro ordine, ma a prezzo pieno, e le toccherebbe pagare il costo di un’altra spedizione. La legge sarebbe dalla sua parte: se un ordine non arriva a destinazione il cliente ha diritto a riavere il denaro speso, ma il Servizio clienti è una linea Whatsapp totalmente muta.
I risparmi? Non sempre reali
Tra l’altro, e-shopping non fa rima necessariamente con risparmio. Il titolare di una cartolibreria mi aveva rivelato tempo fa che ogni settembre vende su un marketplace gli zaini di un noto marchio a un prezzo più alto di quello praticato in negozio, perché la richiesta è talmente alta che gli articoli vanno a ruba qualunque sia la cifra scritta sul cartellino. Anche Idealo, portale di comparazione prezzi, ha più volte dimostrato che il costo dei prodotti sul web varia nel corso dell’anno, tanto da avere un servizio di alert per avvertire gli utenti quando il listino del loro oggetto preferito scende sotto una certa soglia. Persino il mito del Black Friday è stato in parte sfatato. A novembre 2022 la Commissione europea ha monitorato il prezzo di 16.000 prodotti su 176 siti web, notando che nel 43% dei casi gli sconti erano ingannevoli, praticati cioè su un prezzo di partenza più alto. Qualche mese fa, dopo un monitoraggio durato qualche mese su centinaia di prodotti, Altroconsumo ha persino dimostrato che a gennaio, sui principali siti di ecommerce gli oggetti hi-tech si trovano agli stessi prezzi di fine novembre, in qualche caso più bassi. L’associazione ha scoperto che su Amazon il 62% degli smartphone aveva a gennaio a un prezzo stabile o inferiore rispetto a due mesi prima, percentuale che saliva fino al 93% su Unieuro.
Come Davide contro Golia
Maria Pisanò è direttrice del Centro europeo consumatori, punto di contatto per l’Italia del network europeo Ecc-net, che informa i consumatori sui propri diritti e fornisce assistenza in caso di controversie con venditori che hanno sede in altri paesi Ue. Il suo è un osservatorio privilegiato, perché tra i tanti che si rivolgono al Centro sono in molti ad avere problemi con siti di eshopping. «Le problematiche sono tante e riguardano molto aspetti. Per esempio, da ultimo stiamo ricevendo diverse segnalazioni da chi acquista tramite Amazon, ma da altri venditori. C’è un numero abbastanza significativo di clienti che lamentano truffe: al posto di smartphone ordinati ricevono dentifrici o altri prodotti di scarso valore, e non riescono a ottenere il rimborso. Abbiamo contattato il marketplace, sia come Centro consumatori Italiano, sia attraverso i colleghi del Lussemburgo, paese in cui ha sede la piattaforma, ma al momento Amazon non intende prendere misure preventive per tutelare gli acquirenti in questi casi. Gestiscono il problema caso per caso, costringendo i consumatori che inviano il reclamo a fare una denuncia, poi seguire la lunga trafila di telefonate e email. Abbiamo inviato una segnalazione all’Antitrust, perché ci sembra una pratica commerciale scorretta non prevedere su una casistica così frequente una procedura meno macchinosa, e nemmeno adottare misure adeguate per risolvere il problema».
Un altro tema è proprio quello dei pacchi smarriti, sempre più frequenti. «In questi casi dovrebbe essere il venditore ad attivarsi nei confronti dello spedizioniere, perché il rapporto commerciale è tra i due. Perché allora, in tanti casi si costringe il cliente a inseguire l’azienda di spedizioni?».
Le garanzie extra
Ma quali sono le armi per difendersi, in questi casi? «Il consumatore non ha strumenti per poter ottenere rimborsi automatici quando la consegna non viene effettuata o, per esempio, quando effettua il reso e non viene rimborsato del prezzo dell’ordine. L’unica è di armarsi di una garanzia supplementare, per esempio pagare con Paypal, che ti permette di annullare la transazione se sei vittima di truffa o disservizio. Oppure ricorrere al chargeback, cioè il ristorno della spesa se si è pagato con carta di credito. I circuiti di carte di credito prevedono questa possibilità, il problema è che il chargeback è possibile solo nei casi in cui non è stato autorizzato il pagamento, oppure quando l’addebito è maggiore rispetto alla cifra indicata nell’ordine. Per i casi di mancata consegna la procedura può essere attivata solo se previsto nelle condizioni contrattuali della carta di credito. Ecco perché abbiamo sollecitato il legislatore europeo a intervenire, rendendo il sistema più favorevole per il consumatore».
La piattaforma Odr, un’arma spuntata
Se il pacco è perso o danneggiato e il sito non rimborsa, certo c’è la strada dell’azione legale, ma viene da sé, conviene ricorrere a un avvocato per una perdita di alcune decine di euro, come nel caso di Barbara? O agire contro un’azienda che ha sede chissà dove? Esiste la possibilità di ricorrere alla risoluzione delle controversie per gli acquisti online tramite la piattaforma Odr della commissione europea, che permette di avviare una procedura online di conciliazione gratuita, per far valere i propri diritti, o trovare un accordo con il venditore. «Le aziende chiamate in causa non sono però obbligate a presentarsi davanti al conciliatore, e questo rende l’Odr un’arma spuntata» dice Pisanó. I dati della Commissione parlano chiaro. Nel 2021, anno dell’ultimo report, l’89% delle richieste presentate dai consumatori è stato archiviato, perché la controparte non ha acconsentito entro i 30 giorni previsti a partecipare alla controversia, o non ha risposto. Va detto che di questi un 20% ha concluso la trattativa al di fuori della piattaforma, un altro 19%, al momento dell’indagine aveva un negoziato aperto. Ma i numeri restano bassi.
«La Commissione europea sta revisionando la direttiva sulla risoluzione delle dispute online, per renderle più efficaci, purtroppo al momento le proposte di modifica prevedono di lasciare agli Stati membri la decisione di imporre o meno la partecipazione delle aziende alla negoziazione, e questo resta un grande limite per la tutela dei consumatori», prosegue l’esperta. «Oggi l’acquirente online ha una sola arma, quella della recensione. Per le aziende online la reputazione web è un bene molto prezioso. Se si è vittima di un comportamento scorretto vale la pena prendersi la briga di denunciarlo online, sui siti di recensioni o altrove. È un modo per mettere in guardia gli altri consumatori e far perdere di credibilità a un’azienda che non ne merita. E anche di sollevare il tema dei diritti dei consumatori, che sul web non sono ancora completamente tutelati».