Un trattore si aggira per l’Europa ed è il trattore dell’ostilità al cambiamento

La frase ha una sua forza che può stonare nei cuori di qualcuno, ma proviamo a ragionare insieme su ciò che sta accadendo in questi giorni anche in Italia, con le centinaia di agricoltori coinvolti in blocchi vistosi ai caselli autostradali e le proteste, abbastanza generiche a dire il vero, contro la PAC (Politica Agricola Comune) e l’Unione Europea. Il tema è grande e complesso, le proteste (e le proposte) sembrano sparare nel mucchio o semplicemente adottare la cara vecchia logica di tirare un pochino l’angolo di una coperta che è sempre troppo corta.

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Luciano Canova
Luciano Canova

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Economista e divulgatore scientifico, insegna Economia Comportamentale presso la Scuola Enrico Mattei.

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Sempre meno persone vogliono fare l’agricoltore

Un po’ di contesto: l’agricoltura è uno dei settori più sussidiati dell’economia europea e italiana. Il bilancio dell’Unione Europea fino al 2027 destina un terzo delle risorse all’agricoltura e queste servono a sostenere il 50% del reddito di chi lavora nel settore.

Un primo fatto va sottolineato in grassetto: in una società che cresce e attraversa le fasi dello sviluppo tipiche di un’economia industriale, sempre meno persone sono attratte dal lavoro dell’agricoltore e per questo, banalmente, serve una qualche forma di incentivo per sostenere chi prende questa decisione controcorrente.

Ecco i sussidi, altra parola general generica che può voler dire tante cose: trasferimenti diretti sotto forma di complemento al reddito, agevolazioni fiscali o prestiti con tassi ridotti, sconti sull’acquisto di prodotti come i fertilizzanti o aliquote vantaggiose su benzina e gasolio utilizzati come carburanti per le macchine agricole.

Negli anni e nei decenni una quantità di denaro è piovuta sul settore (in Italia parliamo di 8.5 miliardi di euro all’anno che, per capirci, fanno circa un terzo di una legge finanziaria) e, arando il terreno della complessità per semplificare il concetto, tutto questo risponde a una mera constatazione: sempre meno persone vogliono fare l’agricoltore.

Sveglia a orari improbabili e una vita faticosa. E tutto questo per un reddito e una produttività relativamente bassi: il PIL prodotto dal settore agricolo (con tutti i caveat di dover poi considerare indotti ed effetti indiretti, ma i numeri non mentono) in UE è pari a circa l’1.4% del totale e, in Italia come negli altri paesi, non supera mai il 2-3% impiegando una forza lavoro che genera poco valore aggiunto.

Un terzo delle persone che, in Unione Europea, gestisce un’azienda agricola ha più di 65 anni e la grande maggioranza dei terreni destinati all’agricoltura non supera i pochi ettari di estensione: sono dunque terreni con bassa produttività e poca possibilità di sfruttare economie di scala.

E allora? E allora eccoci coi trattori, ma mi pare che possa essere l’ennesima punta di un iceberg sotto cui si cela il corpo di un messaggio che è sempre lo stesso: «non vogliamo che le cose cambino perché è sempre stato così in passato. Lasciate le cose come stanno ora».

Io ho soluzioni? Non articolate, ma ho analisi precise che puntano a due aspetti: l’impossibilità di un punto di vista particolare e l’inutile lotta ai cambiamenti. Che ci sono sempre stati in barba anche a chi protesta per arrestare l’ennesimo.

Le ragioni delle proteste

Sul primo punto, cerco di avere la massima comprensione per la vita di un agricoltore che guarda al futuro del suo lavoro con incertezza. Prezzi volatili, costi dei fertilizzanti inaspriti dall’invasione russa dell’Ucraina, concorrenza proprio dei prodotti ucraini che arrivano in Europa senza dazi; la minaccia del trattato commerciale Mercosur, un accordo dell’Europa con il Sud America che aprirebbe le porte, secondo alcune proteste, all’ingresso nei nostri territori di pollame e prodotti che provengono da quei mercati che si avvantaggiano di regole ambientali meno severe. Ecco, l’ambiente: gli agricoltori, nel calderone del loro livore, ci mettono anche le troppo ambiziose normative europee che provano a introdurre limiti a un settore ahimè molto impattante in termini di emissioni. Limitazione nell’uso di pesticidi e fitofarmaci (repellenti e prodotti contro gli insetti), una proposta che vieterebbe la riduzione nell’uso intensivo dei terreni con l’obiettivo di lasciare incolto un 4% della superficie per favorire la biodiversità; il tentativo di limitare gli sconti sul gasolio per ridurre le emissioni del settore.

La norma per la riduzione della percentuale di terreni coltivati è stata accantonata, quella sui pesticidi bocciata (e si cerca di introdurre dazi per quelli esportati dall’Ucraina). Il trattato Mercosur giace nelle sabbie mobili dello stallo e i trattori e il letame davanti agli uffici di Bruxelles hanno indotto i governi francese e tedesco a fare retromarcia sull’eliminazione delle agevolazioni per i carburanti.

Nota a margine: in Italia, gli agricoltori protestano anche per questo nonostante le aliquote agevolate siano tutt’ora in vigore e nessuno abbia minacciato di toccarle. Solidarietà di gruppo, forse, o protesta preventiva per non farsi nemmeno finire l’idea.

Questione di scelte?

In economia c’è un concetto fondamentale da digerire: il trade off. In un contesto di risorse scarse e di strutturale incertezza, molto spesso fare una scelta per il consumo di qualcosa comporta il sacrificio di qualcos’altro.

Vuoi un’agricoltura più sostenibile? La strada è modificare la struttura degli incentivi per rendere sempre meno facile usare pesticidi, pratiche di agricoltura impattanti, carburanti che emettono molta CO2. È possibile che sulle nostre tavole, nel mentre di una transizione incerta, ci arrivino prodotti più cari.

Vuoi prezzi più bassi? Facilita pratiche di produzione e distribuzione del cibo che, probabilmente, sono associate a un impatto ambientale maggiore.

Il tutto arricchito da ulteriore complessità: perché le norme proposte dal Green Deal per limitare l’emissione di gas clima-alteranti sono influenzate anche dai dati inequivocabili secondo cui proprio il settore agricolo, che protesta contro quelle norme, contribuisce significativamente alle emissioni stesse (ancora con una percentuale superiore al 10%). Con un impatto diretto e indiretto sulla crisi climatica che riduce con i suoi danni il risultato del lavoro dell’agricoltore, rendendolo incerto e penoso e spiegando, pure, parte delle proteste di oggi.

Faccio mea culpa: non conosco da vicino la vita degli agricoltori e ahimè do per scontato che mi arrivi del cibo nel piatto. È una responsabilità grave e sento che in questa distanza le proteste più populiste trovino praterie da percorrere. In Olanda, dove solo il 2.5% delle persone lavora in agricoltura, il partito delle proteste agricole ha preso alle ultime elezioni il 19.5%.

Sento pure, tuttavia, come una forma di distonia nell’humus di questo malcontento. Un bemolle che non doveva esserci lì dove la musica prova a sviluppare un’altra frase. Davvero la nostra posizione nei confronti della ricerca scientifica (quella che fa della “carne da laboratorio” una via promettente per ridurre il nostro impatto ambientale attraverso il cibo) è un luddismo ferito? I dati sulla crisi climatica sono meno importanti delle prospettive del tutto sacrosante di un piccolo agricoltore che vede il suo reddito ridursi?

Scelte. Trade off.

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