Come lo consideriamo Bitcoin, energivoro o green?

È capitato a tutti di leggere titoli che richiamavano la nostra attenzione sul consumo energetico di Bitcoin. Un po’ come a dire che in un momento storico in cui abbiamo l’onere di gestire problematiche importanti come quelle climatiche, la valuta digitale introdotta da Satoshi Nakamoto gioca proprio un ruolo inopportuno. Se invece guardiamo tutto più da vicino, possiamo addirittura scoprire che Bitcoin è un traino per la valorizzazione delle energie rinnovabile. Ma come stanno davvero le cose?

Che cosa c’entra Bitcoin con l’energia?

Per fare chiarezza sugli impatti del consumo energetico di Bitcoin, è necessario comprendere qual è la relazione che lo lega al suo fabbisogno energetico.

Bitcoin è garantito dall’energia.

Quando si fanno transazioni di scambio, infatti, esse sono gestite in maniera decentralizzata, ovvero non esiste nessun ente centralizzato (come potrebbe essere una banca o un qualsiasi altro intermediario finanziario) che verifichi e annoti il trasferimento di Bitcoin da un soggetto A a un soggetto B. Tuttavia, la registrazione di quella transazione è necessaria ed è fatta sulla struttura dei dati distribuita (blockchain) dopo l’avvenuta prova di lavoro (proof of work) dei miners che richiede appunto il consumo di molta energia.

Che cosa è la proof of work e chi sono i miners?

Le transazioni di Bitcoin sono registrate e raggruppate nei blocchi della blockchain (blockchain = catena di blocchi). Ogni blocco può contenere una quantità finita di dati. Quando si arriva al limite di capienza, il blocco deve essere chiuso e successivamente passare all’apertura di un nuovo blocco.

La chiusura del blocco spetta ai miners ovvero a coloro che sono addetti alla sicurezza della rete Bitcoin (volendo, dopo aver scaricato la rete Bitcoin, e con le adeguate strutture tecnologiche, ognuno di noi ha la possibilità di diventare miner).

Ogni miner entra in competizione con tutti gli altri.

Ognuno, infatti, ambirà ad aggiudicarsi la ricompensa in Bitcoin (ottenuta dalla rete in modo automatico grazie all’algoritmo matematico che ne regola il funzionamento) dopo aver svolto queste attività:

  1. La verifica della correttezza delle transazioni da inserire nel blocco della blockchain da chiudere (semplificando il tutto, questo corrisponde a quello che ad esempio fa la nostra banca quando scrive nel conto corrente l’uscita di un certo importo legato a un pagamento fatto).

  2. La soluzione di un “enigma criptografico” definito dalla rete automaticamente che per essere risolto richiede macchine specializzate (asic, se hai desiderio di conoscere qualcosa in più su questi dispositivi, qui trovi una spiegazione alla portata di tutti) che utilizzano moltissima energia. 


Il miner che per primo è riuscito a verificare le transazioni da inserire nel blocco e a risolvere l’enigma crittografico si aggiudica la sua chiusura e la remunerazione in Bitcoin nuovi di zecca emessi dalla rete. L’algoritmo informatico che gestisce questa procedura si chiama proof of work, ovvero prevede l’emissione di nuovi Bitcoin a titolo di remunerazione per la corretta prova di lavoro svolta dai miners.

Se la proof of work richiede una quantità di energia così importante, non è possibile sostituirla con altri “meccanismi”?

Con la definizione dell’algoritmo di proof of work, Satoshi Nakamoto ha individuato il “meccanismo” ideale e fino a oggi infallibile (non ci sono mai stati hackeraggi sulla rete di Bitcoin) per garantire il funzionamento di una rete di scambio totalmente decentralizzata (quindi senza alcun intervento da parte di terze parti) e distribuita (come detto sopra, chiunque può decidere di iniziare una attività di mining e l’obiettivo è proprio quello di ottenere un numero di miners sempre maggiore).

Inoltre, se il miner che si aggiudica la ricompensa dichiarasse valide delle transazioni che non lo sono (gli altri miner hanno anch’essi fatto le stesse verifiche), egli perderebbe totalmente la ricompensa dei Bitcoin ottenuti. 

Questo aspetto è chiaramente un forte incentivo economico a comportarsi in modo onesto.

A oggi la proof of work è il meccanismo di consenso (questo è il nome tecnico della procedura utilizzata per la validazione e l’inserimento sulla blockchain delle transazioni) ritenuto più affidabile e allineato agli obiettivi con cui nasce Bitcoin: lo scambio di valore in modo decentralizzato.

E quindi, come si concilia questo importante consumo di energia con il fatto che Bitcoin sia considerato un traino delle energie rinnovabili?

Per comprenderlo facciamo un calcolo grossolano (nel senso che considereremo solo le determinanti più importanti) del profitto dei miners: 

  • Ricavi: sono rappresentati dal valore complessivo sul mercato a una certa data dei Bitcoin che ottengono come ricompensa della proof of work (il numero di Bitcoin ricevuto come ricompensa della proof of work è fisso, attualmente corrisponde a 6,25 Bitcoin. Esso cambia ogni quattro anni per effetto dell’halving di cui parleremo in uno dei prossimi contenuti);

  • Costi: la parte più importante dei costi è legata all’energia che i miners consumano per l’utilizzo della capacità computazionale (data dalle macchine ASIC di cui abbiamo parlato sopra) volta alla soluzione dell’enigma criptografico

La differenza tra queste componenti (ricavi – costi) rappresenta il profitto dei miners. 

Se i miners riescono ad abbassare i costi, come per ogni business, il loro profitto aumenta. La via più efficace per abbassare i costi dell’energia è quella di scegliere energia da fonti rinnovabili, ovvero energia green.

È proprio questo il punto: i miners hanno tutto l’interesse oggettivo (basato sulla convenienza economico-finanziaria) a utilizzare energia da fonti rinnovabile che, oltre a fare bene alla cassa dei miners, supporta e alimenta l’utilizzo di queste fonti di energia che spesso, tra l’altro, rimangono completamente inutilizzate come nel caso della centrale idroelettrica trentina, in Val di Non, abbandonata dal 1972 e dove nel 2022 è nato un virtuosissimo progetto per il ripristino della centrale a supporto dell’attività di mining.

Questo è solamente uno dei progetti. Ce ne sono molti altri e il loro numero è in costante crescita.

A questo punto però, è prevedibile che sorga una domanda: perché se oggettivamente Bitcoin si sta spostando verso un utilizzo di energia sempre più  green, è comunque sempre accusato di essere troppo energivoro?

La risposta è complessa, nel senso che è il frutto di più ragioni: alcune più semplici altre più articolate. È sicuramente utile ricordare le principali: la gestione della tematica “criptovalute” a ogni livello è ancora diffusamente semplicistica. Spesso si fanno considerazioni che esulano dalla conoscenza ad hoc del fenomeno, dall’analisi dei dati e da una comparazione adeguata di fenomeni correttamente assimilabili. Tale approccio, inoltre, è talvolta supportato da una ritrosia che il comparto della finanza tradizionale (centralizzata) e delle istituzioni nutrono nei confronti dell’evolversi della finanza decentralizzata. L’emissione della moneta è sempre stata appannaggio dei governi e delle banche centrali. Il profilarsi di nuove opportunità come quella di Bitcoin può evidentemente apparire come una minaccia per quelle istituzioni e della detenzione di quel potere. Ecco, quindi, che il combinarsi di questi e altri fattori generano una visione distorta sul mercato che, sicuramente, diverrà sempre più sbiadita con l’evolversi e il consolidarsi di questa valuta. 



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