Quanto si arricchiscono le aziende con il carovita?

Elisa dice che da qualche anno fare la spesa è diventato quasi un lavoro. Lo racconta come uno slalom estenuante tra supermercati meno cari, offerte speciali e primi prezzi. E nonostante tutto, il risultato finale non cambia: anche se il carrello è semivuoto, al momento di pagare lo scontrino non è mai sotto i 30 euro. I due stipendi che entrano a casa e che fino a qualche tempo fa avevano garantito benessere a quattro persone sono diventati piccoli. Ed è così per moltissimi. Secondo uno studio condotto da Acli, che ha il nome evocativo “Povere famiglie. L’impatto dell’inflazione sui redditi degli italiani”, in termini di potere d'acquisto una famiglia con due redditi ha perso in media nel 2023 otto carrelli di spesa, dove per carrello si intende una quantità di generi di prima necessità del valore di 90 euro.

Compro meno ma spendo di più

Nel 2023 gli acquisti nella grande distribuzione sono diminuiti in volume dell’1,7% - ci dice AQ Nielsen, istituto di ricerca specializzato sui comportamenti d’acquisto dei consumatori -. Eppure chi è entrato nei supermercati ha speso l’8,3% in più. I beni di largo consumo hanno registrato un aumento medio del 10,3% e per alcuni prodotti di prima necessità, come pasta o olio extravergine d’oliva, i listini si sono gonfiati del 20-30% e oltre. Viene da sé, allora, che 7 consumatori su 10 vadano ormai a caccia di promozioni, come evidenzia il Rapporto Coop, e più di uno su due rinunci o riduca la frequenza di acquisto.

Bilanci in salute

I numeri però non sono finiti, ed è qui che arrivano le sorprese. In due anni di guerre e meteo impazzito, caro energia, inflazione e caro mutui, sembra che a essersi impoveriti siano solo i consumatori finali.  Sappiamo già dei fatturati da capogiro di gruppi bancari e grandi aziende energetiche. Sorprende ancora di più vedere che spesso a guadagnarci sono stati anche i produttori dei beni che troviamo sugli scaffali dei supermercati, o se non altro i più grandi. Secondo un’analisi della piattaforma di trading eToro, che ha osservato i bilanci delle maggiori aziende alimentari quotate in borsa, i rincari registrati tra le materie prime non hanno affatto danneggiato le big company del settore food. I loro ricavi sono più che soddisfacenti, come se i maggiori costi fossero stati scaricati abbondantemente sul prezzo finale, andando ben oltre l’esigenza di compensare le maggiori spese. 

Il caso del cacao

I conti delle multinazionali del food godono di ottima salute, si legge nell’analisi. Prendiamo le aziende dolciarie, che hanno “subito” negli ultimi tempi i rincari record del cacao, ingrediente indispensabile per snack e dolci. Gabriel Debach, Italian market analyst di eToro, che ha curato l’analisi, fa notare che mentre i prezzi della materia prima sono ai massimi storici, con un aumento del 54% da inizio anno, i margini di guadagno di molte multinazionali del settore sono cresciute non poco: «Per Nestlè, l’evoluzione del segmento Confectionary (che racchiude gli snack e prodotti dolciari, come KitKat, Aero, Smarties, Nestlè) riporta una crescita organica dell’8,5%». Numeri simili per l’americana Mondelez, società produttrice degli Oreo: «La crescita del fatturato nel 2023 è stata del 14%, mentre il profitto lordo è cresciuto del 21%, segno deciso della capacità dell’azienda di scaricare i maggiori rincari dei costi di prodotto al cliente. Situazione simile la riscontriamo anche sull’americana The Hershey e la svizzera Lindt».

Le strategie delle aziende: confezioni più piccole, prezzo immutato

Anche l’industria delle bevande non se la passa male, con una crescita media del fatturato del 6,72%. Merito solo di una maggiore efficienza operativa, si chiede l’analista? Quello che sappiamo, è che i consumatori non se la passano bene, e che anzi sono doppiamente vittime. Ai rincari evidenti, come quello dell’olio extravergine o della pasta, si aggiungono spesso altri rincari, più subdoli perché mascherati. Negli ultimi anni le associazioni di consumatori di mezzo mondo stanno denunciando una pratica diventata ormai consuetudine per molte compagnie, e cioè quella di “alleggerire” i prodotti. E’ il fenomeno della shrinkflation: confezioni apparentemente identiche al passato contengono in realtà meno pezzi o meno prodotto, ma a prezzo invariato. I consumatori fanno fatica ad accorgersene, perché convinti di comprare lo stesso detersivo o la stessa confezione di patatine di sempre, ma stanno acquistando un prodotto di peso inferiore, pagandolo di più.  

Usa e Francia, politica in campo contro i furbi

Negli Usa il tema tiene banco da mesi. Il senatore democratico Joe Casey ha presentato un rapporto  basato sui dati del Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti, che denuncia che i rincari nascosti dovuti alla shirinkflation hanno raggiunto in media il 9,8% tra gli snack, il 7,3% tra i prodotti per la pulizia della casa, il 7,2% per caffè, caramelle e gomme da masticare e via dicendo. Il presidente Joe Biden ha richiamato in diretta le compagnie produttrici di snack, durante una diretta del Super Bowl, e un gruppo di senatori ha presentato una proposta di legge, già battezzata Shrinkflation Prevention Act, che punta a punire chi ridimensiona le confezioni dei beni senza toccare il prezzo. In Francia è invece stato il governo a presentare una bozza di decreto che prevede l’obbligo per i rivenditori di segnalare i prodotti “ridimensionati” con etichette evidenti. Nel frattempo, lo scorso autunno il gruppo Carrefour ha iniziato a segnalare nei suoi ipermercati i prodotti che hanno subito una sgrammatura, apponendo dei cartelli. 

L’indagine dell’Antitrust (archiviata) 

In Italia? Già dal 2022 l’Unione nazionale consumatori denuncia la tendenza a ridimensionare le confezioni, comune anche tra brand italianissimi. La lista delle segnalazioni è interminabile, e va dalle marmellate ai panni per la polvere, dai bicchieri di plastica alle buste di lievito, dalle fettine di formaggio alle merendine, dalle bottiglie di birra ai detersivi. L’associazione ha informato l’Antitrust, che a sua volta aveva avviato un’istruttoria, ma l’indagine è stata poi archiviata. Non c’è comunicazione ingannevole da parte delle aziende - è in sintesi la motivazione - perché il peso e il contenuto del prodotto sono indicati in etichetta. Ma la shirinkflation non è l’unico strattagemma con cui le aziende riescono a migliorare il rendimento. Alla sgrammatura si aggiunge in alcuni casi la skimpflation, dove a cambiare non è il peso ma la ricetta. I produttori sostituiscono cioè ingredienti più nobili e costosi, come il burro, l’olio di girasole, le uova o la carne, con altri più economici, spesso con minori proprietà nutritive. Difficile scovarli, a meno di non conoscere a memoria le ricette dei prodotti, ma in UK la rivista per consumatori Which ha messo sotto la lente diversi prodotti della catena Tesco, scoprendo per esempio che nelle salsicce la carne di maiale era scesa dal 97% al 90%, nella crema spalmabile la percentuale di burro è stata ridotta dal 54% al 50%, nel Guacamolela percentuale di avocado era calata dall’80% al 77%.

Comprare, sì o no?

Cosa può fare il consumatore? Noi di Rame, qualche guida fa  suggerivamo di guardare al supermercato non il prezzo per pezzo, ma quello per chilo, o litro, che sono indicati sullo scaffale in caratteri più piccoli, per evitare almeno l’illusione ottica di comprare una birra da 50 cl al posto di una da 66. Certo, questo aggiunge lavoro al lavoro, come già diceva Elisa. La sola arma che abbiamo, ha dichiarato il presidente dell’Unione nazionale consumatori Massimiliano Dona, è di smettere di comprare i prodotti di chi fa il furbo, mandando così un messaggio chiaro. E fare rumore. Sarà anche un’arma spuntata, ma è la sola.



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