Come facciamo a reintrodurre il dono nella nostra cultura?

In una puntata del nostro podcast, Sofia Borri ci racconta che quando era all’università aveva deciso di fare l’Erasmus. La sua famiglia non aveva grosse disponibilità economiche per coprire tutte le spese, quindi lei inizia a barcamenarsi tra più lavori per mettersi da parte un gruzzoletto e partire. Fino a che, a un certo punto, per la prima volta entra in contatto con una dimensione finanziaria totalmente nuova: quella del dono. «Quell’anno lì, degli amici dei miei genitori che avevano saputo che volevo fare l’Erasmus e che stavo lavorando come una matta, mi hanno finanziato una borsa di studio. Mi ricordo che ero davvero felice, non avevo nessuna sensazione di disagio. Ho pensato che avevano deciso di investire su di me perché ero in gamba e me lo meritavo». Sofia e i suoi genitori accettano il dono a cuor leggero pur sapendo di non poterlo restituire nell’immediato, ma ciò non crea in loro nessuno sgomento. «A volte ho l’impressione che nel dono ci sia una sorta di galera mentale, in realtà se c’è la possibilità di far circolare delle risorse queste vanno fatte circolare», afferma Sofia. Un esempio simile lo riporta Marco, 30 anni, che ogni qualvolta che va ad aiutare la sua vicina di casa ottantenne a sistemare l’orto e il giardino, torna a casa con ceste piene di frutta e verdura. «Ogni tanto se non è stagione di raccolto, dopo qualche giorno mi suona al campanello e mi consegna una torta fatta in casa. Andiamo avanti così da anni, e per me è una ritualità preziosa», racconta Marco. 

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L’origine dell’economia del dono

Ma facciamo un passo indietro. Come ci spiega Annalisa Monfreda nel suo libro Quali soldi fanno la felicità, i primi “soldi” di cui abbiamo traccia risalgono alle origini della scrittura: sono le tavolette di argilla dei templi Sumeri, dove venivano annotati prestiti, canoni d’affitto, e così via. E allo stesso modo dei Sumeri, anche moltissime altre civiltà sono arrivate all’invenzione del denaro, attribuendo a degli oggetti un determinato valore: c’era chi utilizzava il sale, chi le conchiglie e chi il grano. Questi “soldi”, però, non venivano usati per comprare cibi o vendere servizi, bensì per rendicontare crediti o debiti o più in generale per ostentazione di status. Gli scambi commerciali sono sempre stati affidati, per molto tempo anche dopo la nascita del denaro, a ciò che sia Marco sia Sofia hanno sperimentato, e cioè l’economia del dono, un sistema per cui ciò che io do a te sono sicuro che me lo renderai a un certo punto sotto un’altra forma. Come spiega Edoardo Lozza, professore Ordinario presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica e autore del libro Psicologia del denaro: un approccio storico-genetico, «si può vedere il dono come un negativo fotografico dello scambio monetario di denaro. Il dono è soprattutto relazionale e implica sempre un controdono che sostiene la relazione ricevente, esattamente al contrario dello scambio di denaro, perché quando paghiamo qualcuno, noi non gli dobbiamo più nulla e la relazione termina lì».

Perché oggi il dono ci scatena l’urgenza di ricambiare?

Ma se questi scambi esistono da migliaia di anni, perché nel momento in cui ci viene donato qualcosa sentiamo l’urgenza sociale di ricambiare a tutti i costi, cercando di eguagliarne il valore monetario?

«Per due motivi – spiega Lozza - il primo è che siamo sempre di più permeati dalla mentalità di mercato, secondo cui gli scambi sono temporanei e nel momento in cui io ricambio allo stesso modo in cui ho ricevuto mi sento più a mio agio con me stesso. E poiché il capitalismo ha enfatizzato questi processi, noi tendiamo a ripeterli anche con i nostri amici. In secondo luogo, perché il mercato si sta espandendo anche in ambiti in cui prima non era presente, e perciò tendiamo ad assumere questa mentalità quantitativa in cui tutto viene misurato in base al denaro». Eppure, gli scambi di doni non dovrebbero implicare una perfetta equivalenza misurabile. Facciamo un esempio: nel momento in cui offriamo una cena ad un amico solo per il piacere di farlo, sarebbe strano se il giorno dopo lui decidesse di offrirci la stessa cena, con gli stessi piatti, solo per emularne il valore monetario. Anche se in realtà, inconsciamente, è quello che facciamo, perché questa sbavatura è ormai insita nel nostro modo di relazionarci al dono. In questo caso però, è interessante notare il paradosso: quando regaliamo a qualcuno qualcosa togliamo sempre il prezzo. Il denaro esce di scena anche quando l’altra persona sa benissimo quanto possiamo averlo pagato. «E ciò è dovuto al fatto che, in quest’ottica, il denaro è desacralizzante perché nessun dono o regalo ne dovrebbe essere vincolato», continua Lozza.

La differenza tra dono e regalo

Noi sappiamo, però, che per certe persone donare qualcosa o fare regali è tutta una questione di prezzo. Sofia Borri cita un altro esempio molto importante: in diverse situazioni si è trovata con delle amiche che, in procinto di andare ad un matrimonio, sceglievano il regalo in base al prezzo che presupponevano avessero speso gli ospiti per ogni persona. «Bisogna fare però una distinzione tra dono e regalo – chiarisce Lozza - Il dono non guarda l’aspetto economico e fa parte di uno script comunitarista, mentre con il regalo entra in gioco una mentalità gerarchica. Indubbiamente un regalo come dono sostiene la relazione, però è un gesto molto meno libero, spesso legato alla logica della consuetudine». Ciò che emerge dunque, è che nella società in cui viviamo dono e regalo tendano spesso a confondersi e ad invadere l’uno i confini dell’altro. 

Come facciamo, dunque, a reintrodurre il dono nella nostra cultura?

«Bisogna uscire da questa mentalità che ci pervade e in cui tutte le nostre motivazioni di qualsiasi scambio sono finalizzate a massimizzare gli utili. Sicuramente essere consapevoli di queste dinamiche psicologiche può aiutare, soprattutto nelle relazioni sociali, a riconoscere che invece possono esserci altri valori e altre logiche che ci guidano», conclude Lozza.



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