Ho rinunciato all’indipendenza economica per un uomo

Figlia di due genitori divorziati, entrambi con una nuova famiglia, Sara cresce inseguendo il mantra dell’autonomia. Impara ben presto a farcela da sola, rinunciando agli studi e accettando un lavoro da impiegata statale che lascia poco spazio alla sua creatività. Quando incontra un uomo che guadagna abbastanza per due e le promette una vita agiata, si licenzia e si trasferisce con lui in Germania. Spera di potersi dedicare alla scrittura e di farne una professione. Ma il muto accordo che salta fuori all’improvviso è che se lui lavora, lei deve occuparsi interamente della casa. E così Sara, mentre si costruisce una immagine pubblica da intellettuale, nel privato si ritrova autosegregata dietro le faccende domestiche. Finché non trova il coraggio di stravolgere ancora una volta la sua vita.

Uno dei primi ricordi che ho degli insegnamenti di mia madre è la massima: non farti mai mantenere da un uomo, ma piuttosto trova qualcuno e mantienilo tu.
Questo avvertimento sull’indipendenza economica è rimasto un chiodo fisso per tanti tanti tanti anni.

Sara Mazzini oggi ha 42 anni. È nata quando sua madre frequentava l’ultimo anno del liceo e suo padre il primo di università. I genitori non avevano una vera indipendenza economica, e quando la trovarono tutti i nodi vennero al pettine. Quel matrimonio tra due giovanissimi, che si conoscevano appena, forzato dalle famiglie di appartenenza, non durò. Sara aveva tra i 12 e i 13 anni quando il divorzio scaraventò tutti di nuovo nel baratro dei problemi economici.

«Prima del divorzio mi sembrava che ci fosse una stabilità forte, vedevo i miei genitori come monumenti di sicurezza nella mia vita», racconta. 

«Nel momento in cui si sono separati, ho cominciato a vedere le loro fragilità anche dal punto di vista della sicurezza economica. Mi ricordo sempre questa lotta per gli assegni familiari. Mio padre aveva una situazione complicata, non riusciva a star dietro a tutti gli impegni e mia madre mi mandava a chiedere gli assegni».

Ricordo che andavo a prendere questi pezzi di carta che dovevano servire al mio mantenimento. Era una percezione strana del mio valore, del mio costo, di quello che serviva per mantenermi.

Quando Sara finisce le superiori, entrambi i genitori si sono rifatti una famiglia e hanno figli piccoli e bisognosi di cure. Sara ha una sola certezza: se vuole fare l’università deve pagarsela da sola. E vuole farla, con tutte le sue forze. Anche per portare a compimento l’ambizione dei suoi stessi genitori. Che, entrambi bravi a scuola, avevano dovuto interrompere gli studi per crescerla.  

«Su di me puntavano tutti, anche io ero contenta perché sapevo che sarei stata la prima laurea in famiglia».

Così Sara si iscrive a Psicologia grazie a una borsa di studio e intanto inizia a lavorare. Prima la babysitter, poi la barista, poi l’insegnante in una scuola elementare grazie al diploma magistrale.

A quel tempo viveva a casa di suo padre, fuori Firenze, in una stanza in condivisione con una sorellina neonata e una sorellastra di 8 anni. Doveva pagarsi l’università, gli spostamenti, lavorare e studiare. Dopo due anni, l’università le sembra più un intralcio all’indipendenza economica, che un trampolino per i suoi desideri. Così decide di lasciarla. 

A quel punto ha 21 anni e va a vivere a Milano col suo ragazzo, il primo amore della sua vita, che le ha trovato lavoro in un pub. 

«Ci ho lavorato 6 mesi. Entravo alle sei del pomeriggio e uscivo alle due di notte. Era una vita completamente notturna. È stato come tornare indietro, perché lì non avevo un contratto, lavoravo a nero, se un giorno stavo male e non potevo andare a lavorare non guadagnavo niente. Poi con questo ragazzo ci siamo lasciati e mi sono ritrovata a dover pagare un affitto di 300 euro al mese con uno stipendio di 900. Era difficilissimo arrivare a fine mese ed ero completamente sola. Non era la mia vita, non era il mio posto».

Sara torna a Firenze. Ha ormai 23 anni e non c’è posto per lei in nessuna delle case dei suoi genitori, piene di altri bambini. Così va a vivere da sua nonna.

«Sono stata da mia nonna per 6 anni ed è stato un trauma grosso. Io avevo sperimentato la mia indipendenza e per quanto stessi bene con lei, ero di nuovo in casa di qualcun altro, quindi dovevo sottostare alle sue regole e non potevo gestire le cose a modo mio».

Il giorno dopo il suo ritorno a Firenze, le arriva una telefonata dalla Regione Toscana: scopre che è entrata in graduatoria e da lì a un mese avrà un posto nel settore pubblico. Si era iscritta a quella graduatoria spinta da sua madre che aveva sempre lavorato nell’amministrazione pubblica.

«Mia madre era stata educata con l'idea che il posto fisso e il posto pubblico fossero l’unica sicurezza. Lei cercava di spingere anche me in quella direzione. Io non mi vedevo in un ufficio, quindi mi sono opposta a questa idea finché poco prima di andare a Milano mi sono convinta a iscrivermi a una graduatoria».

Per 6 anni, Sara fa la dipendente pubblica dalle 9 alle 17 e in tutto il resto del tempo scrive per riviste e per il suo blog.

«La scrittura è sempre stata un hobby purtroppo, non veniva presa in considerazione nella mia famiglia perché non essendo qualcosa da cui si poteva trarre un guadagno, non veniva ritenuta un lavoro. Quindi ho fatto molta fatica negli anni a coltivare quella che sapevo poteva essere solo una passione».  

L’indipendenza economica ormai l’ha raggiunta. Ce l’ha in tasca. Ma in qualche senso ha perso se stessa.

Lavoravo nell’amministrazione pubblica e sentivo uno scollamento fortissimo tra la mia personalità creativa e la mia professione. Quando qualcuno mi chiedeva “Che lavoro fai?” io non potevo dire la scrittrice, dicevo l’impiegata, perché la scrittura non mi dava un guadagno materiale.

È a quel punto, all’età di 29 anni, che Sara incontra a Firenze l’uomo che sarebbe divenuto suo marito. 

«Lui veniva da una situazione totalmente opposta a quella che mia mamma avrebbe desiderato per me. Sua madre non lavorava, accudiva la casa, cosa che per me è un lavoro vero e proprio. Tra lei e suo marito c’era questo accordo. E mio marito ha ripetuto lo stesso modello con me. Mi ha detto: “Guarda, io ho la possibilità di andare a lavorare in Germania. Tu vieni con me se vuoi”».

Lui avrebbe potuto mantenerla mentre lei imparava il tedesco e portava avanti la scrittura, cercando finalmente di farne un lavoro. Sara accetta e vola a Monaco di Baviera. 

«La frase di mia mamma mi tornava in mente. Non mi piaceva essere mantenuta, l’unica cosa che potevo fare era insegnare italiano a domicilio. Quindi per tutta la durata del mio soggiorno in Germania, ho fatto ripetizioni di italiano».

Questo non basta, però, né a contribuire al bilancio familiare né a mettere a tacere le vocine interiori. 

«Avevo un forte senso di colpa perché mia madre non approvava la cosa, era un rischio, stavo rinunciando alla sicurezza per lanciarmi nel vuoto. Però intanto era iniziata la fase più bella della mia vita in Germania. I nuovi stimoli, la possibilità di scrivere davvero, di entrare in contatto con culture diverse, mi avevano messo nella condizione di percepire lo scollamento che avevo vissuto fino a quel momento e di capire che potevo essere quello che veramente sentivo di essere, una persona creativa».

Ed è proprio durante questo periodo privilegiato che Sara riesce a portare avanti ciò che poi è divenuto il suo lavoro.

«Con un solo lavoro, il suo, ci potevamo mantenere entrambi. In Germania gli stipendi sono tutta un’altra cosa rispetto all’Italia. Il costo della vita è elevato ma solo per i beni non essenziali. Lì ho effettivamente vissuto la mia stagione da ricca. Poi ricca non ero, ma sicuramente privilegiata». 

Quel privilegio, però, se ne accorge ben presto, ha un prezzo molto alto. 

«Purtroppo siamo schiavi di una serie di costrutti mentali, per cui a un certo, non so bene da parte di chi, probabilmente abbiamo collaborato in sinergia, si è reso necessario il fatto che io, per giustificare questa condizione di non lavoro, mi occupassi interamente della casa».

Il muto accordo che è saltato fuori all’improvviso era proprio questo: lui avrebbe lavorato, io mi sarei occupata della casa. Era un divisione netta.

«Avevo un appartamento di 100 metri quadri. Quindi non solo dovevo stare dietro al mio lavoro, quello che volevo diventasse il mio lavoro, ma dovevo anche occuparmi di tutte le faccende domestiche». 

Un nuovo scollamento è alle porte per Sara.

«A me che sono una persona abituata a riflettere sulle cose, sembrava una concezione molto vittoriana della vita. Io stavo cercando di costruirmi un terreno da intellettuale, da pensatrice e di nuovo sentivo uno scollamento tra la mia personalità e il mio modo di vivere. Avevo la sensazione di predicare bene e razzolare male. Di parlare di conquiste, di come dovrebbero vivere le donne, e poi di trovarmi autosegregata dietro le faccende domestiche». 

La conversazione sul tema era impossibile.

«Era un tasto molto difficile da toccare. Le rare volte che ci abbiamo provato ci siamo scontrati ferocemente perché era diventato logico che noi avessimo questi ruoli e anche esprimere disagio era come mostrare una insubordinazione».

Ho capito che se volevo continuare ad avere quella vita e quei privilegi, dovevo stare zitta. Ho persino sviluppato una patologia che mi provocava problemi alla gola: mi sembrava che stessi diventando muta, perché non riuscivo a esprimere ciò che veramente sentivo. Siamo andati avanti così sei anni, di cui gli ultimi tre in totale silenzio, stavamo diventando completamente estranei.

Lui decide che vuole tornare in Italia. Sara si oppone perché sa che al rientro tutto sarebbe esploso. Ed è esattamente ciò che succede. Vanno a vivere per 6 mesi dai genitori di lui, poi decidono di comprare casa. A quel punto Sara capisce che se vuole compiere quel passo enorme deve essere onesta con lui su ciò sente veramente. Sul disagio che ha provato in tutti quegli anni. 

«Quando finalmente gli ho detto come mi sentivo, lui è andato in crisi. Per sei mesi non abbiamo più parlato della cosa. Poi ho scoperto che lui aveva passato quei 6 mesi a pensare a cosa era successo e a organizzarsi: si era aperto un conto in banca autonomo e il giorno del nostro anniversario di matrimonio mi ha presentato gli atti del divorzio. In quel momento il suo grosso atto d’amore è stato prendere tutti i suoi documenti e separarli dai miei, creandomi un faldone apposito. Si era sempre occupato lui dei nostri documenti».

Come aveva visto accadere da bambina ai suoi genitori, inizia, con il divorzio, un periodo finanziariamente difficile.

Dopo 6 anni di un matrimonio con una persona che si è occupata di tutti gli aspetti economici e burocratici, io mi sentivo incapace di affrontare la vita. C’erano mesi in cui andavo a fare la spesa e mi veniva restituito il bancomat perché non c’erano abbastanza fondi. Ho dovuto far arrivare mio padre da un altro paese per portarmi 50 euro per andare avanti il fine settimana altrimenti non avrei mangiato. Però mi è servito tantissimo perché alla fine di quel periodo ho capito che ero in grado di andare avanti anche da sola.

Sara trova un lavoro bellissimo, in un centro fitness a Firenze, che unisce due sue grandi passioni, la scrittura e lo sport. Certo, le condizioni contrattuali erano discutibili, ma le permetteva di mantenersi. Per poter abitare in città e fare a meno di un’auto, ormai quarantenne va a convivere con altri tre inquilini, dieci anni più giovani. E con loro affronta tutto il periodo della pandemia, recuperando l’adolescenza che non aveva mai avuto.

«Io penso che la vita sia sempre in continua evoluzione, in quel momento avevo bisogno di trovare me stessa. Mi sono trovata in ritardo. E cosa succede in quel momento? Che in genere trovi la persona giusta».

E infatti Sara incontra il suo attuale compagno. Nel frattempo, a causa della pandemia, viene lasciata a casa senza stipendio dal centro fitness. Così decide di mettere a sistema tutto ciò che aveva fatto fino ad allora nel mondo editoriale. Un amico editor le passa un lavoro affinché lei si metta alla prova e scopre di avere tutti gli strumenti in mano per svolgerlo. E quelli che non ha, li può apprendere studiando. Nel frattempo, cambia nuovamente città e va a vivere a Pavia con il suo compagno.

«Dagli errori del passato si impara. Io mi fido moltissimo del mio compagno, però ognuno ha il suo conto ci dividiamo le spese in casa equamente».

Sara ha trovato a Pavia un lavoro tappabuchi: fa la receptionist part-time in una palestra. Il resto del tempo fa editing. Ogni mese entra qualcosa da questa attività, non ancora un intero stipendio, ma è un grande soddisfazione. Certo, fatica a risparmiare tutti mesi.

«Ma ho imparato che ogni volta che arriva qualche entrata extra la metto da parte».

Per la prima volta, ha anche una visione su questi risparmi. 

«Io vorrei riuscire a mettere da parte un piccolo capitale per avviare una società con il mio compagno. Anche lui ha iniziato a fare l’editor e abbiamo questo sogno che adesso non ci sembra più tanto irrealizzabile, forse perché siamo in due a perseguirlo. Vogliamo aprire un’agenzia letteraria o una piccola casa editrice».

Non è facile ma abbiamo una spinta motivazionale forte perché dopo anni e anni passati a fare compromessi tra immagine pubblica e interiore, finalmente quello che siamo davvero possiamo metterlo a frutto del nostro lavoro.

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Giacomo Traldi

Giacomo Traldi is a freelance graphic designer. His work focuses on both print and digital editorial projects, visual identities and video making. Based in Milan, he has collaborated with Studio FM Milano, Leftloft, Tomo Tomo and the publishing houses Periodici San Paolo and Mondadori. He studied Communication Design at Politecnico di Milano and at Rhode Island School of Design.

https://www.giacomotraldi.com
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