Mai sentito parlare di comunità energetiche rinnovabili?

Tre imprese su quattro ne hanno sentito parlare, ma solo il 13% dei cittadini sa cos’è una comunità energetica rinnovabile. Lo dice una ricerca di Fondazione Symbola, gruppo Tea e Ipsos. Di energy sharing, insomma, ne sappiamo ancora molto poco. A fine 2022, secondo il Gestore dei servizi energetici (GSE), in Italia non arrivavano a 30 le comunità energetiche rinnovabili già operative ed erano solo 46 le configurazioni di autoconsumo collettivo, per una potenza di 1,4 megawatt. Nonostante questo, l’obiettivo del Pnrr è arrivare a giugno 2026 con almeno 2 mila MW di capacità di energia rinnovabile.

A cura di Annalisa Piersigilli


Cosa sono le comunità energetiche rinnovabili?

Partiamo dalle basi. Una comunità energetica rinnovabile è un insieme di individui, enti e aziende che condividono un impianto fotovoltaico nella stessa area. È un modo per promuovere le fonti rinnovabili e contribuire alla transizione energetica verso la decarbonizzazione (minori emissioni di gas serra in natura). Un modello più sostenibile, che prevede la condivisione dell’energia elettrica tra cittadini, imprese e pubblica amministrazione.

È dal 2016 che se ne parla in Europa, grazie al pacchetto di misure Clean energy for all Europeans, ma in Italia ci sono ancora solo progetti pilota in fase di sperimentazione, in seguito al decreto legge 8/2020. La proposta di decreto attuativo che le incentiva è in attesa dell’ok dalla Commissione UE e dovrebbe arrivare entro l’anno. Solo una volta ottenuto, le comunità, che hanno ricevuto valenza giuridica già da qualche anno grazie al Decreto legislativo n.199/2021, potranno ampliare i loro confini e coinvolgere più persone, perché ci sarà più certezza sulle regole da seguire.

I progetti italiani, nati negli ultimi anni dall’impegno di presidi, sindaci o cittadini, sono tutti in una fase diversa, ma stanno dando i loro primi incoraggianti risultati: da San Giovanni a Teduccio (Na), avviata dal 2022 sul tetto di una fondazione, a Villanova Forru (Su), in cima a un edifico scolastico; dal Consorzio Pinerolo Energia in Piemonte alla comunità collettiva Recocer in Friuli.

Come funzionano le comunità energetiche?

La partecipazione a una Cer è aperta e volontaria. La richiesta di accesso si fa al GSE che ha stilato un documento ufficiale con le regole tecniche per l’accesso al servizio di valorizzazione e incentivazione dell’energia elettrica condivisa. Tra privati, basta un accordo scritto. Se sono coinvolti una piccola-media impresa o un ente, è richiesto un contratto con l’intervento di un legale e di un notaio. Per l’assistenza tecnica, ci si può affidare alle cooperative energetiche, come ènostra e WeForGreen.

Un concetto base da capire è quello di cabina di distribuzione. Nel nostro sistema elettrico, ce ne sono di due tipi: primaria, che copre una superficie estesa (come un quartiere), e secondaria, nelle aree più piccole (una via per esempio). Le case si agganciano alle cabine di distribuzione per ricevere l’energia. Per ora le Cer sono “relegate” al livello della seconda cabina, ma con i decreti attuativi in via di approvazione la comunità energetica potrà appunto ampliare i suoi confini e il perimetro geografico entro il quale aggregarsi fino all’area coperta da una cabina di distribuzione primaria.

Quanto si guadagna con una comunità energetica?

Le Cer non nascono con l’obiettivo di realizzare profitti finanziari. Come spiega l’associazione Altroconsumo, le spese in bolletta non cambiano, ma per 20 anni si ricevono degli incentivi o compensi economici (calcolati in base ai kWh di energia elettrica condivisa) da parte del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica perché, autoproducendo energia, non si grava sul sistema elettrico nazionale (GSE, o Gestore dei Servizi Energetici, che finora distribuisce energia prodotta da fonti non rinnovabili, come le centrali a gas o gli impianti idroelettrici). Grazie al fotovoltaico i punti di produzione si moltiplicano creando un sistema decentralizzato, che consuma energia autoprodotta e così mette al riparo il GSE dai picchi di consumo.

Per il 2023 gli incentivi dal GSE, variabili in base alla potenza dell’impianto, sono in media 0,16 euro a kWh e arrivano tramite un bonifico direttamente al referente della comunità energetica o dell’autoconsumo collettivo, che poi si occuperà di suddividerlo tra i soggetti partecipanti. In bolletta poi non ci saranno i costi per la gestione della rete elettrica, visto che si tratta di comunità autonome nel produrre energia.

Quanto costa l’energia rinnovabile?

Chi fa parte di una comunità energetica non investe soldi di tasca propria e può diventare un prosumer, che sta per produttore-consumatore di energia, anche se non è proprietario di un impianto privato per la sua abitazione. Non è necessario installare nuovi contatori e non esistono vincoli con dei fornitori di energia elettrica. È ancora da confermare, ma dovrebbe arrivare un contributo extra per gli impianti nati in località del nord o del centro Italia, e di conseguenza meno assolate rispetto al sud. In più, per i Comuni con meno di 5 mila abitanti, il Pnrr prevede dei contributi a fondo perduto fino al 40% del costo dell’impianto (ma questo comporterà un incentivo più basso in seguito).

Come fare una comunità energetica in condominio?

In questa situazione c’è un’alternativa di aggregazione alla comunità energetica che prende il nome di autoconsumo collettivo: coinvolge le persone (almeno due) che vivono nello stesso condominio o edificio e, con un accordo privato, consumano l’energia prodotta dallo stesso impianto condiviso.

 

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