Oggi sono ricca, e risparmio per essere libera

Antonella cresce in una famiglia di braccianti agricoli, dove tutti lavorano, ma l’accesso ai soldi è riservato agli uomini. Il suo amore per lo studio diviene un progetto collettivo di nonni e genitori che le permette di essere la prima laureata in famiglia. Eppure, finché resta in Italia, pur con tutti i titoli che via via consegue, non riesce a trovare niente di meglio che un lavoro a progetto, rinnovato annualmente, per 1500 euro al mese. Quando si trasferisce a Copenaghen, in Danimarca, ottiene nei primi 12 mesi tutto ciò che ha desiderato per anni: uno stipendio stellare, un mutuo e presto dei figli. La sua è una storia di emancipazione economica, certo. Ma presto diventa una storia di emancipazione culturale da uno schema sociale in cui l’arricchimento deve essere esibito, ostentato, anche a costo di depauperarlo. Per lei, che ha visto le donne di famiglia private di ogni potere, i soldi sono uno strumento di liberazione, di appropriazione della sua autonomia. E in quanto tali, vanno risparmiati.

Il primo febbraio mi trasferisco a Copenaghen. Il 3 febbraio ho il primo colloquio di lavoro, il 12 febbraio ho in mano una bozza di contratto e diventa tutto surreale rispetto alla fatica a cui ero abituata. In Italia avevo la sensazione di non essere mai nella condizione di potermi riposare, di godere lo stato raggiunto. Adesso guadagno 72mila corone. Ogni volta che lo racconto a mio padre lui mi chiede quanti sono in euro, per capire se può essere contento o no: sono 9800 euro lordi al mese, 6400 netti.

Antonella Ninni è nata nella provincia di Taranto 35 anni fa. Tutti i componenti della sua famiglia lavoravano in campagna come braccianti agricoli per 4 euro e mezzo all’ora. I soldi venivano dati al capofamiglia che li metteva sul conto e decideva come utilizzarli.

Tutte le donne con cui sono cresciuta non avevano accesso ai soldi.

«L’unico modo per avere accesso ai soldi era trovare degli escamotage. Dire che si era speso 20mila lire, invece di 15mila lire, e metterne da parte 5. Questi soldi potevano essere la paghetta in più che mi veniva data, o il vizio in più che si toglievano mia mamma e le mie nonne».

Antonella è appassionata di libri, giornali, di tutto ciò che è conoscenza. E la sua famiglia contadina, fortunatamente, crede nell’educazione come strumento di emancipazione. 

«Mio nonno paterno ha sempre avuto un’ossessione per gli studi. Come hobby leggeva il dizionario e poi mi interrogava. Appena ha visto che io avevo quell’interesse, lo ha sovvenzionato in tutti i modi. Verificava i miei voti a scuola, se corrispondevano a quello che gli avevo detto, mi regalava dei soldi che io, da sfigata, spendevo in altri libri».

Antonella è la prima della famiglia a frequentare le scuole superiori, il liceo classico per la precisione. Dopo la maturità, i genitori la spingono verso le due professioni percepite come “i lavori con cui ti sistemi”, ovvero il medico e l’avvocato. Ma Antonella a quel punto si è innamorata della politica, così “vende” loro, letteralmente, l’immaginario della figlia ambasciatrice e ottiene di poter studiare Politica internazionale a Firenze.

«Da lì cominciarono a mettersi d’accordo, ad allineare tutti i pianeti, a parlare con i nonni: fu proprio un progetto collettivo».

I genitori e i nonni uniscono le forze per mandarle 800 euro al mese, da cui tirar fuori tutto: l’affitto, le spese, i libri. La condizione era che lei facesse gli esami in tempo e mantenesse sempre una buona media.

«È stato molto difficile all’inizio perché sentivo la necessità di performare. I sacrifici sostenuti dalla famiglia per farmi studiare mi venivano ricordati con una cadenza quotidiana. Pian piano, con gli anni, ho trovato l’equilibrio tra il riconoscere il valore di quell’investimento, ma anche il godermi questo capitolo della vita».

Antonella si laurea in corso, facendo pure un Erasmus a Dublino. Si iscrive alla magistrale in Sviluppo locale e regionale e si laurea con il massimo dei voti, infilandoci dentro un master in Smart cities a Lisbona. Dopodiché, tutto ciò che trova è un lavoretto per coordinare una serie di attività locali con il comune di Firenze, praticamente gratis.

E li comincia la frustrazione perché i miei genitori vedono la figlia, la prima che ha fatto il liceo, l’università, che parla inglese e portoghese, che si è trasferita all’estero, è tornata, si è laureata, venir pagata 50 euro, 100 euro e continuare ad aver bisogno del loro aiuto...

Il giorno in cui discute la tesi magistrale, suo padre la prende da parte, le dà un assegno da 10mila euro e le dice: “Con questo finisce il nostro rapporto di dipendenza. Usali come vuoi”. 

«Non ero pronta ad andare all’estero, volevo dare una possibilità a questo Paese, così ne prendo 7mila e li investo in un master in europrogettazione a Venezia. C’è la solita retorica che non siamo mai abbastanza qualificati. Quindi mi iscrivo al master migliore d’Italia, vado lì per una settimana, mi pago tutto, treno, hotel, e alla fine mi ritrovo con questo diploma, tantissime nozioni in testa ma nessun tipo di possibilità lavorativa. Mando curriculum dappertutto ricevo solo una risposta, mi propongono una finta partita Iva a 400 euro lorde come part-time. I miei genitori fanno fatica a digerirlo. Dopo qualche mese mi rendo conto che, netti, erano 270 euro al mese. Quindi continuo a fare lavoretti, come la hostess o come vestirmi da arancino per promuovere viaggi in Sicilia».

È il 2014. Mentre Antonella si arrabatta tra questi mille lavori, esce un bando tra Unioncamere e Google. Cercano 100 giovani in 52 città d’Italia per favorire la digitalizzazione delle imprese del made in Italy. Antonella fa domanda, arriva prima a Firenze. Un anno dopo, Firenze è la città che ha performato meglio. Le propongono di divenire coordinatrice del progetto a livello nazionale. Accetta. Passa da 1000 euro al mese a 1500. Gli studi iniziano a dare i primi frutti, anche se non ancora il benessere sperato.  

Lentamente, però, nell’equazione della vita, iniziano a subentrare altri fattori che la spingono a guardare fuori dall’Italia. Ad Antonella, che ormai vive alla luce del sole una storia d’amore con un’altra donna, inizia a pesare il fatto che non ci sia una legge che le permetta di sposarsi o di avere una famiglia. La sua compagna, inoltre, è nera e sente l’avanzare dell’ondata fascista in Italia. Il lavoro, poi, viene rinnovato annualmente e le ha svelato, ahimè, il vero volto della politica.

Ho scelto di lasciare l’Italia perché è stato doloroso vedere com’era il mondo del lavoro e lavorare da vicino con la politica e la pubblica amministrazione. Come dice qualcuno, a furia di tapparsi il naso si perde l’olfatto. Mi sono turata il naso pensando che la politica è l’arte del compromesso. Però sentivo una forte frustrazione.

La fidanzata di Antonella ottiene un dottorato in Svezia. Lei avrebbe dovuto raggiungerla di lì a poco. Ma dopo 7 anni che stavamo insieme, capiscono di non volere le stesse cose e si dicono addio. Antonella, però, ha già lasciato sia la casa sia il lavoro a Firenze, così decide di partire ugualmente. Ma alla volta di Copenaghen in Danimarca. È il 1 febbraio 2018.

«È stato un altro salto nel vuoto come quando ero partita per Firenze. Anche qui non conoscevo nessuno, non c’ero mai stata prima e ci sono arrivata in inverno. Ma ho pensato che se ce l’avessi fatta in inverno sarei riuscita a sopravvivere senza problemi». 

Ed eccoci al punto di partenza della nostra storia. In Danimarca, il primo lavoro è già un contratto a tempo indeterminato come project manager con uno stipendio lordo di 6400 euro al mese, che aumenta di anno in anno fino agli attuali 9800. 

Durante il covid sento di maxi licenziamenti, tutti i miei amici in Italia sono in cassa integrazione. La mia manager mi chiede un coloquio one-to-one per aggiornarci e mi dice che sono andata molto bene e oltre all’aumento vogliono darmi il ruolo di advanced project manager.

Mentre continua a crescere professionalmente, Antonella decide di comprare una casa. L’unica condizione che le viene chiesta per ottenere il mutuo è che abbia un lavoro e viva in Danimarca. Qualche anno dopo, quando la sua nuova compagna decide di trasferirsi da Roma a Copenaghen, vende il primo bilocale e compra una casa più grande, di 75 metri quadri.  

«Cose che sono surreali quando le racconto ai miei amici in Italia, a meno che non c’è la garanzia dei genitori, a meno che non c’è l’eredità: sono necessari tantissimi altri livelli di garanzia per poter accedere alla maggior parte delle cose che ho ottenuto qui nei primi 12 mesi».

Man mano che vede aumentare il suo potere economico, Antonella si riconosce libera dagli schemi di povertà culturale e sociale di cui inconsciamente era stata protagonista con la sua famiglia.

C’è un’idea di ricchezza che permea i contesti di provincia, che è una ricchezza materiale, posizionale, da ostentazione. Fa sì che quando guadagni un po’ di più devi dimostrare che ce l’hai fatta. C’è una scarsa tendenza alla ricchezza esperienziale, culturale.

«Alcuni amici di famiglia mi dicono: “Non sembra che guadagni tanto”. Oppure mia madre mi dice: “Vestiti meglio, la gente sa che fai un grande lavoro...” Persone che hanno meno capacità economiche di me sono coperte di brand da capo a piedi, hanno cellulari più nuovi del mio, fanno vacanze più instagrammabili delle mie. Ma da quando vivo lontano mi è chiaro che la ricchezza a cui ambisco è un’altra cosa».

L’eredità culturale, però, è un bagaglio complesso. E Antonella impara presto a riconoscere che alcuni valori con cui è stata cresciuta, che arrivano dritti dalla cultura contadina, possono risultare preziosi in questa nuova vita che sembra non avere nulla a che fare con la sua infanzia.

«Ho sempre dei risparmi e questo forse mi ha permesso di crescere anche più di tanti amici che vivono in Danimarca. La mia capacità di risparmio è stata condizionata dal contesto in cui sono cresciuta, il non dare mai per scontato dove sei arrivata, il non appoggiarsi mai perché non sai cosa può succedere. È l’approccio alla vita di mia madre e di mia nonna».

Antonella ha tradotto questa indole contadina del guardare lontano in un metodo semplice, che ha brevettato quando aveva la Partita Iva e al primo F24 era scoppiata in lacrime per non averne preventivato l’importo. 

Lo chiama “metodo dei tre conti” e funziona così: nel primo conto arriva lo stipendio. Da lì toglie il mutuo, le utenze, gli abbonamenti e li mette nel conto “spese fisse”. Ma da lì toglie anche la cifra che vuole risparmiare quel mese, che mette nel “conto risparmio”. Così sul primo conto rimane esclusivamente il suo budget mensile e ha piena percezione di cosa può spendere. 

Il conto risparmio, intanto, che prima era un generico cuscinetto per le emergenze, ora ha una destinazione ben precisa. 

«Una parte importante della mia vita è il diventare madre e qui è possibile, legale, sostenuto e soprattutto normale oltre che gratuito. Quindi sto mettendo da parte soldi per un’eventuale maternità futura. I risparmi per ora hanno quel nome».

Durante tutti questi anni lontana dal luogo in cui è cresciuta, i soldi per Antonella hanno letteralmente cambiato significato. 

Ho associato per lungo tempo i soldi a qualcosa di negativo che definiva un rapporto di potere tra i generi. Per me i soldi adesso sono uno strumento di liberazione, di appropriazione della mia autonomia.

Antonella guadagna di più e ha entrate fisse, mentre la sua compagna lavora come freelance. Ma entrambe sono attente a far sì che la disuguaglianza non si trasformi in una scusa per controllare l’altra.

«Siamo molto trasparenti su quali schemi vogliamo evitare: non abbiamo alcun tipo di disequilibrio nell’accesso alle risorse. Sono molto consapevole di come un disequilibrio economico possa creare un disequilibrio relazionale, un sommerso di ingiustizie, di rancore, e possa anche trasformarsi in violenza economica». 

Nella storia di Antonella vibra il riscatto di tutte le donne della sua famiglia.

Mia nonna, che ho perso a maggio, me lo diceva sempre: “Stai facendo tutto quello che non ho potuto fare io”. Anche dopo aver fatto coming out, a me che avevo tanta paura di perderla, diceva: “Tu hai capito la libertà, tutte le cose che fai fuori dagli schemi, le fai anche per me che non ho mai potuto immaginare di fare diversamente.

Se vuoi ascoltare questa storia in podcast:

Leggi anche:

Giacomo Traldi

Giacomo Traldi is a freelance graphic designer. His work focuses on both print and digital editorial projects, visual identities and video making. Based in Milan, he has collaborated with Studio FM Milano, Leftloft, Tomo Tomo and the publishing houses Periodici San Paolo and Mondadori. He studied Communication Design at Politecnico di Milano and at Rhode Island School of Design.

https://www.giacomotraldi.com
Indietro
Indietro

Incidente stradale: le mosse corrette per ottenere il risarcimento

Avanti
Avanti

È giusto investire durante l’inflazione?