Per anni mi sono vergognata del mio lavoro

Serena conosce il suo futuro marito quando ancora studia psicologia. Lui è 15 anni più grande ed è un avvocato affermato. Vivono un grande amore che riesce a offuscare i segnali di piccole violenze quotidiane. Lui paga cene e aperitivi, tutto ciò che è visibile. Lei, grazie all’affitto che percepisce da una casa ricevuta in dono dai suoi, fa la spesa e compra il necessario per la vita quotidiana, tutto ciò che è sommerso. Quando finisce gli studi ed esprime la volontà di un’esperienza all’estero si ritrova incinta, senza nessuna possibilità di costruire una carriera. Il bambino nasce contemporaneamente all’acquisto di una nuova enorme casa. Il patto è tacito. Niente asilo, sarà lei a occuparsi dei bambini, che presto diventano due, e della grande casa. Durante quegli anni, non può fare altro che continuare a studiare per specializzarsi, ma si accorge di farlo di nascosto. Quando finalmente apre il suo studio da psicologa, lui instilla in lei un grande senso di colpa e di inadeguatezza per quel lavoro poco remunerativo che però toglie tempo ai bambini e alla casa. Serena va avanti, il lavoro inizia a ingranare e proprio allora lui le chiede di fare un terzo figlio... 

Questo contenuto è realizzato in collaborazione con Bright Sky, l’app che ogni donna dovrebbe avere sul suo telefono. Perché con pochi clic permette di conoscere e riconoscere le forme di violenza di genere, anche le più invisibili. E permette di chiedere e ottenere aiuto.

 
Lui era completamente distaccato dalla mia vita lavorativa. Che io vivevo con un senso di vergogna. Mi vergognavo di provare a lavorare come se stessi provando a fare un giochino.

Lui è un avvocato affermato, che guadagna molto bene. Lei una psicologa che muove i primi passi nel mondo del lavoro. Come sia arrivata a provare vergogna per qualcosa di indiscusso valore è la storia che adesso proverò a raccontarvi.

Un grande amore che offusca i segnali

Serena cresce a Empoli con una sorella maggiore e due genitori che, pur avendo lavori semplici, permettono a entrambe le figlie di frequentare l’università in un’altra città.

«È sempre stato molto chiaro, nella mia famiglia, che bisognava studiare, bisognava trovarsi un lavoro ed essere indipendenti». 

Serena va a studiare Psicologia a Padova. Ed è lì che conosce il suo futuro marito. Lei ha 24 anni, lui quasi 40. Lei studentessa, lui avvocato di successo.

«È anche una persona molto brillante e giovanile. La sentivo molto affine e ci divertivamo insieme. Io all’inizio non percepivo quasi questa differenza di età. Ora, col senno di poi, vedo delle storture e mi dico che avrei dovuto intuire che era troppo adulto per perdere tempo dietro a una ragazza che era ancora all’università». 

Allo sguardo degli altri, sono una coppia molto stabile e innamorata. Ogni stonatura, ogni ambiguità, Serena cerca prima di tutto di nasconderla a se stessa.

«Abbiamo iniziato un rapporto molto bello, molto profondo. Per tanti anni c’è stato un grande affetto e un grande amore, sicuramente». 

Serena continua a vivere con le sue coinquiline, ma trascorre sempre più tempo nella casa del suo fidanzato. Pur non avendo uno spazio per le sue cose. 

«C’era un solo armadio nel reparto notte. E non mi ha mai detto: “Metti qui le tue cose, ti lascio uno sportello”. E quindi mi ero portata una grande scatola che tenevo in un’anta, dove io ammassavo tutti i miei vestiti».

Solo dopo un bel po’ abbiamo comprato insieme un armadietto antico da un robivecchi e l’abbiamo messo in camera. Era a un’unica anta, quindi molto piccolo, diciamo che è stato quello il mio ingresso nella sua vita. Come a dire: ci sono anch’io e ho anch’io diritto a uno sportello.

Di quella casa, Serena non possiede neppure un mazzo di chiavi. 

«Lui mi ha dato le chiavi del portone d’ingresso del condominio e del garage dove avevamo le biciclette, ma non della porta di casa perché mi diceva che essendo blindata era difficile farne una copia. Quindi io potevo uscire, perché lui mi lasciava in casa la mattina, se avevo lezione più tardi, però non potevo rientrare a mio piacimento. Se sapeva che c’era la necessità che io tornassi a casa prima di lui, mi lasciava le chiavi nel garage. Per cui io accedevo al garage, prendevo la chiave del portone ed entravo in casa. Di questo sì, ho provato un senso di disagio, tanto che, se per esempio un’amica mi accompagnava a casa, mi vergognavo moltissimo. Per cui entravo nel condominio, salutavo e poi, quando tutti andavano via, andavo a prendermi la chiave».

L’uso dei soldi e del tempo

In quegli anni Serena si mantiene grazie a un appartamento che i genitori le hanno comprato a Empoli e che lei ha messo in affitto. Con quei soldi cerca di contribuire a sistemare la casa che lui ha appena comprato: «Ho iniziato a sentirla sempre più mia e ad acquistare quello che poteva servire».

Lui, da parte sua, mi offriva gli aperitivi o le cene. Io, dal canto mio, per non sentirmi un peso, facevo la spesa a casa e cucinavo. Quindi io con i miei soldi gestivo una parte invisibile e lui gestiva invece la parte più visibile.

Serena è perfettamente integrata nella vita di lui, conosce i suoi colleghi, la sua famiglia, i suoi amici. Ogni giorno lo raggiunge in studio e pranzano assieme.  «C’era un rapporto molto vero, non c’erano cose grosse per cui io potessi rendermi conto della sottile violenza quotidiana che vivevo su altri fronti». 

L’anno della tesi di laurea Serena inizia a percepire inconsciamente che c’è una forma di squilibrio in quella relazione. Benché sia molto impegnata tra lo studio, il tirocinio e la scrittura della tesi, non appena lui la chiama lei si interrompe e lo raggiunge. 

«Avendo io una vita meno strutturata della sua, essendo più giovane, i suoi impegni prevalevano sui miei, quindi io stessa avevo iniziato a sminuirli. Magari stavo tutto il giorno a casa a fare la tesi e in qualunque momento mi chiamasse, che fosse il pranzo, la cena o un aperitivo, lasciavo stare tutto da parte e correvo. Non mi rendevo conto, anche qui, della violenza perché erano cose belle. Praticamente è sempre stato così. Finché non mi sono accorta che sacrificavo tantissimo tempo».

Così, quando ho scelto il tirocinio post-laurea, in un guizzo di lucidità, pur avendo trovato tante possibilità nella mia città, sono andata a farlo fuori, per cui uscivo di casa prestissimo e tornavo la sera. Un grande impegno, una grande fatica, ma almeno avevo tutta la giornata per me, almeno la mia giornata non era più scandita dalle sue richieste che io scambiavo per amore. Per lui era probabilmente amore.

Finito il tirocinio, Serena vorrebbe fare un master a Londra, dove suo zio la stimola a raggiungerlo per il grande fermento che c’è nella capitale inglese. 

«Non c’è stato modo nemmeno di iniziare ad approfondire perché il mese successivo ho scoperto di essere incinta. Ed è finita ogni ipotesi di post laurea o post tirocinio. Stavamo insieme da 4 anni ma non ne avevamo mai parlato».

Serena non pensava nemmeno che lui covasse questo desiderio. E così, finito il tirocinio, si ritrova da un giorno all’altro a casa senza aver avuto modo di capire quale futuro lavorativo potesse avere. Va ai colloqui, avvia progetti con i comuni, ma poi tutto si ferma di fronte all’evidenza della sua pancia.

«In quei mesi di gravidanza a casa ho vissuto una depressione peripartum. Stavo male e non capivo bene perché. Penso si trattasse di questa sensazione di essere ferma, bloccata».

La scoperta di una ricchezza insospettata

Via via che la gravidanza va avanti, Serena inizia a comprare tutto ciò che serve per accogliere il bambino: la cameretta, i vestitini, la carrozzina, il letto. 

«Mi hanno aiutato i miei genitori a farlo e in questo lui non ha contribuito mai. Io mi pagavo le ecografie e le visite in ospedale, tutto quello che riguardava il bambino, come se fosse una cosa solo mia».

Quando nasce il piccolo, benché avessero già la stanza in più per accoglierlo, lui decide di comprare una casa più grande. Lei si mette in cerca, seleziona, propone, ma lui non sembra interessato. Ha visto una casa all’asta di cui si è innamorato. È enorme e molto costosa ma lui sembra non preoccuparsene.

È lì che inizio a percepire una differenza rispetto a come avevamo sempre vissuto. Mi inizio a rendere conto che probabilmente ha più disponibilità economica di quella che avevo creduto.

Serena segue i lavori di ristrutturazione, osserva le parcelle degli operai, si preoccupa per tutti i soldi che vede girare, ma lui non mostra alcun segno di tensione.  Il giorno dell’asta avrebbero dovuto partecipare assieme, ma all’ultimo momento si accorgono che manca una firma. Lei resta col bambino mentre lui va e si accaparra la casa come unico intestatario.

Per contribuire a pagarla, lui le chiede di vendere l’appartamento che possedeva ad Empoli, e che fino a quel momento era stata la sua unica fonte di sostentamento, e di mettere i soldi nella nuova casa. Con quel progetto in testa, si sposano in regime di comunione dei beni.

Tre mesi dopo il matrimonio, però, sono davanti al notaio per firmare la separazione dei beni. Lei non è riuscita a vendere l’appartamento di Empoli a un prezzo pari a quello di acquisto così decide di rimetterlo in affitto e di riprendersi l’unica rendita di cui dispone. Lui va avanti con il progetto casa, intestandola a sé.

Il lavoro e la vergogna

Nel frattempo arriva la seconda figlia.

«Quindi io mi ritrovo in una casa molto grande con due bambini molto piccoli, che non vanno nemmeno all’asilo perché stanno con me».

L’accordo è tacito: «“Ma cosa lavori a fare per prendere un misero stipendio che ci serve per pagare asilo e babysitter quando ci sono io che guadagno bene mentre tu gestisci i bambini? Facciamo una vita serena, agiata. E stare a casa coi bambini è importante per loro...” Così mi diceva lui. E a me sembrava un grande privilegio, tutto sommato». 

Serena, in realtà, vive quella situazione con imbarazzo: si vergogna al cospetto delle sue amiche che corrono tutto il giorno tra il lavoro e i figli. Può fare una cosa, però. Puo rimettersi a studiare. Così si iscrive a una scuola di specializzazione, che le richiede un grande impegno economico e di tempo. Con lui parla chiaro. 

«Gli dico che nei prossimi anni sarei stata molto impegnata e avrei avuto un grande investimento economico. Che i miei soldi non sarebbero più entrati in casa per la spesa, ma quasi tutti per questa formazione. Lui non reagisce».

Lei si mette a studiare e arriva a fare l’esame di stato. Ma quando si guarda indietro realizza una cosa incredibile.

Mi sono accorta che nascondevo i libri. Quando lui non c’era, tiravo fuori tutto e studiavo perché era molto impegnativo. Quando lui tornava, mettevo tutto via per non far vedere che avevo passato la mattina a studiare. Però non mi rendevo conto di questa cosa che facevo.

Serena non ha mai avuto accesso al conto in banca di suo marito.  Non ha idea del suo patrimonio o delle sue entrate. A un certo punto, quando non riesce più a far fronte alle spese della casa con la sua piccola rendita dell’appartamento di Empoli, gli chiede di contribuire. Lui le dà una carta che però non è collegata a nessun conto. È una ricaricabile, su cui mette una cifra ogni mese che lei non può sforare. Per di più è lui a ricevere il rendiconto della banca.

Intanto, finita la specializzazione, Serena vuole iniziare a lavorare

«Nonostante tutto, riesco a portare avanti il mio progetto, e cioè mettere a frutto quello per cui ho sempre studiato. Ora mi rendo conto che ho fatto una fatica enorme, perché lo facevo con un senso di colpa e un senso di inadeguatezza. Pensavo di fare qualcosa che non mi spettasse o che non era utile o che non era all’altezza del lavoro suo, un passatempo, un giochino insomma».

Serena inizia a utilizzare l’auto per andare a lavorare fuori. Sempre più spesso, non torna a casa per pranzo e lui inizia a farglielo pesare.  A un certo punto, decide di prendere un piccolo studio in affitto vicino casa per lavorare con un’amica. Lui non l’aiuta con gli arredi, non la consiglia quando costruisce il sito internet, non si presenta neppure all’inaugurazione.

Snobbava ciò che facevo, a volte mi prendeva addirittura in giro sui miei progetti. E mi ostacolava in tutti i modi. Quando avevo bisogno di tempo, lui non era mai disponibile, perché il suo lavoro era troppo impegnativo, per cui dovevo sempre sacrificare il mio. Mi ricordo una volta, avevo una supervisione molto grossa e ho dovuto portare con me mio figlio malato con la febbre perché lui non era tornato dal lavoro come mi aveva promesso.

Nel 2017, i bimbi iniziano a essere grandi e il lavoro a ingranare. La loro relazione è sempre più conflittuale a causa della progressiva indipendenza che Serena acquisisce. Eppure, all’improvviso, lui le chiede di fare un terzo figlio. 

«Non me l’aspettavo. E per quanto molto intenerita da questa cosa, perché era comunque una dimostrazione d’affetto, gli ho detto di no: “Adesso non riesco a rimettermi a casa con un bimbo piccolo. Se ne avessimo voluti tre, dovevamo pensarci prima, così li facevamo tutti assieme”. C’è stato questo conflitto, insomma. Io ho rifiutato e non ne abbiamo più parlato. Però, effettivamente, col senno di poi, dico che quello era il modo che conosceva lui di vivere la famiglia». 

Poco dopo, nell’ufficio di suo marito arriva una nuova collega trent’anni più giovane. Serena capisce subito che hanno intrapreso una relazione: lui inizia a tornare meno a casa. A pranzo non la invita più. Ma lui nega fino alla fine. 

«Voleva semplicemente continuare su questa modalità ambigua. E io per fortuna ho avuto la forza di dire no. Non so dove ho trovato questa forza, perché nel momento in cui l’ho fatto, pensavo di non riuscirci, perché comunque lui mi diceva: “Non puoi separarti da me, perché senza di me tu e i bambini non andate da nessuna parte”. Ed era vero. Io però ero veramente arrivata al limite, anche a livello di umiliazione e di maltrattamento. Iniziavo a vedere tutta la violenza psicologica ed economica che avevo vissuto per tanti anni. In quel periodo ho aperto un conto da sola, tra l’altro. Ho iniziato a vedere cosa sono i soldi che entrano e che escono». 

La separazione è una battaglia faticosissima che Serena conduce tenacemente fino a vincerla. Oggi lui vive con la sua collega 30 anni più giovane e lei con i suoi due figli. Fa la psicologa a tempo pieno ed è ogni giorno che passa più orgogliosa di sé.

Quando mi chiedono che lavoro faccio, non mi vergogno più e mi chiedo come facessi a vergognarmi di una cosa simile. È incredibile. Eppure era quello che provavo. Vergogna di lavorare, vergogna del lavoro che facevo, perché era troppo poco, perché non aveva valore, non aveva dignità. E invece adesso ha valore e dignità. Il mio lavoro e anch’io. E questo è incredibile. Questa, veramente, è la conquista dell’ultimo anno.

Questa puntata è stata realizzata in collaborazione con Bright Sky, una app gratuita realizzata da Fondazione Vodafone per contrastare la violenza di genere, in ogni sua forma. Non solo quella che subiamo direttamente ma anche quella che temiamo si consumi nel privato delle case delle nostre amiche. Perché di fronte alla violenza, non dobbiamo mai sentirci sole.  

Ascolta questa storia in podcast:

 

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Giacomo Traldi

Giacomo Traldi is a freelance graphic designer. His work focuses on both print and digital editorial projects, visual identities and video making. Based in Milan, he has collaborated with Studio FM Milano, Leftloft, Tomo Tomo and the publishing houses Periodici San Paolo and Mondadori. He studied Communication Design at Politecnico di Milano and at Rhode Island School of Design.

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